La fabbrica italiana della cannabis
Luigi Manconi ha visitato lo stabilimento di Firenze dove viene prodotta la cannabis che entro la fine dell'anno sarà venduta nelle farmacie a scopo terapeutico
di Luigi Manconi – Senatore, presidente della commissione per la tutela dei diritti umani
Entriamo nella fabbrica italiana della cannabis, quella – manteniamo la calma –destinata al solo uso medico. Ovvero la cannabis terapeutica che entro la fine dell’anno anche in Italia potrà essere trattata, confezionata e commercializzata sotto forma di infiorescenze, utilizzabili come medicinali da acquistare in farmacia. La fabbrica in questione è lo stabilimento chimico-farmaceutico militare di Firenze, dove mi reco insieme ad Antonella Soldo (forse la principale esperta italiana in materia, con l’eccezione di alcuni chimici e farmacologi) per conoscere lo stadio raggiunto dal progetto. Un progetto che, pur potenzialmente realizzabile sin dal 2007, solo nei prossimi mesi vedrà la sua prima entrata in pratica.
I primi a venirci incontro sono alcuni sindacalisti che vogliono farci conoscere le loro proposte a proposito della “smilitarizzazione” di quell’azienda. Poi l’incontro con i tre ufficiali dell’esercito che dirigono la struttura: il colonnello Antonio Medica e il tenente colonnello Flavio Paoli, direttore e vicedirettore dello stabilimento, e il tenente colonnello Lorenzo Funaro. I militari ci raccontano la storia dello stabilimento, dagli anni in cui produceva chinino a quelli di dismissione via via di funzioni e compiti fino ai tentativi di rilancio: negli anni Novanta, con la sperimentazione Di Bella, e nel 2006 con la produzione di vaccini contro l’aviaria. Ma lo stabilimento ha una produzione ordinaria che interessa le merci più diverse: cioccolato e liquori, integratori alimentari e profumi, fino a kit sanitari per l’esercito e differenti presidi medici. Ora la cannabis. Il progetto sembra solido, e con prospettive che lasciano ben sperare.
Il colonnello Medica ci illustra quali sono gli obiettivi del progetto pilota che li vedrà impegnati per due anni nel mettere a punto un sistema per soddisfare il fabbisogno nazionale e, chissà, magari anche esportare. Per il momento il volume di produzione può arrivare fino a 400 chilogrammi annui, di due varietà diverse di cannabis, da loro denominate FM2 e FM19. La prima è un’infiorescenza di cannabis con Thc (uno dei maggiori e più conosciuti principi attivi della cannabis) al 6 per cento e Cbd (l’altra molecola della pianta con effetti terapeutici, ma non psicotropi) al 9 per cento. La seconda è un’infiorescenza con Thc più alto: al 19 per cento. Entrambi i preparati verranno distribuiti alle farmacie di tutto il paese, che si occuperanno materialmente della preparazione delle dosi (in base alle prescrizioni mediche) e della vendita al pubblico. Il prezzo si aggirerà intorno ai 10 euro al grammo: ma si tenga presente che in 11 regioni è previsto che il costo sia a carico dei rispettivi servizi sanitari.
Quanto alle indicazioni terapeutiche, un decreto del ministero della Salute emanato lo scorso novembre presenta un elenco chiuso e, per la verità, assai limitato: sclerosi multipla, lesioni del midollo spinale, dolore cronico per cui “il trattamento antinfiammatorio con cortisonici oppioidi si sia rivelato inefficace”, chemioterapia, radioterapia, terapie per HIV, anoressia, glaucoma, sindrome di Tourette. Resta sospesa la possibilità di prescrizione per altre patologie per le quali pure vi sono testimonianze in letteratura scientifica: Parkinson, epilessia, SLA, morbo di Chron, disturbi psichiatrici.
Nella conversazione all’interno dello stabilimento di Firenze, i tre ufficiali parlano con uno stile, un linguaggio e una misura che risultano irresistibili per chi, come noi, è abituato a esperti provenienti da altre culture. Con l’eccezione di farmacologi autorevoli come Pierluigi Gessa o di un medico saggio come Giorgio Bignami, il discorso sulla cannabis è in genere affidato o al dizionario politico-istituzionale (quello dell’antiproibizionismo e della legalizzazione o del suo opposto) o all’argomentazione contro-culturale (il significato antiautoritario e libertario dell’autodeterminazione nel consumo di sostanze proibite). Qui, siamo lontani mille miglia. E ascoltiamo parlare tre manager di vecchio stampo: senza l’eccitato entusiasmo dei dirigenti di imprevedibili start-up e l’ingenuità dei neofiti dei nuovi mercati. Qui abbiamo quello che appare un solido gruppo dirigente, molto informato e aggiornato sulla letteratura scientifica internazionale, che valuta oggettivamente opportunità e rischi, fattori di agevolazione o di resistenza a livello istituzionale e condizioni ambientali.
L’effetto è sottilmente, e inconsciamente, comico. Perché – verrebbe da dire, a un certo punto, ai nostri serissimi interlocutori – “ma, insomma, sempre di canne stiamo parlando”. E invece non è affatto così. Stiamo parlando, piuttosto, di uno dei più classici dei significati del termine farmaco, o meglio pharmakon: allo stesso tempo veleno e rimedio. O, se si preferisce, droga e medicina. Anche se, per farsi del male con la cannabis, se non si è adolescenti, bisogna impegnarsi parecchio e abusarne assai. I tre ufficiali, dopo averci illustrato il business plan, ci accompagnano nelle celle che custodiscono le piantine. Le talee arrivano dal Cra di Rovigo, il centro specializzato che da decenni fa ricerca sulla cannabis e dove opera uno dei maggiori esperti italiani, Gianpaolo Grassi.
Nello stabilimento le talee vengono messe nei vasi e riposte per alcune settimane in cellette sterili, con ambiente adeguatamente umidificato e illuminato da lampade ad alta potenza e dal curioso effetto stroboscopico, tipo discoteca. Per accedervi è necessario indossare camici, cuffiette e calzari, nonché disinfettare le mani con alcol: si tratta, infatti, di una fase molto delicata per le piante, che rende necessario assicurarsi che siano protette dai batteri. Da qui passiamo a visitare gli altri ambienti, quelli dove le piante saranno successivamente collocate per potersi sviluppare. Si tratta anche in questo caso di spazi illuminati con lampade ad alta potenza, ampi, ma separati tra di loro (per evitare che eventuali malattie delle piante possano estendersi da un settore all’intera coltura). Poi ci sono i locali per l’essiccazione, dove i fusti capovolti verranno prosciugati completamente di ogni traccia d’acqua: questo per non sviluppare muffe che possano essere dannose per chi dovrà farne uso.
Le stanze sono ampie, dotate di porte d’accesso blindate che si aprono solo tramite tessere con codici. Mentre le attraversiamo l’impressione è quella di una vecchia fabbrica che riprende nuova vita. Accanto ai locali già messi a punto, ci sono i vecchi settori, quelli prima destinati alla produzione del sapone: presto anch’essi verranno convertiti alla nuova destinazione d’uso. Usciamo dallo stabilimento, che ha una sua rigorosa ma discreta struttura protetta, curiosamente colpiti da questo singolare percorso dentro una dimensione così serenamente razionale. Una dimensione ancor più sorprendente e rara in un clima, come quello prevalente nella nostra società nazionale a proposito di sostanze stupefacenti, tanto surriscaldato e ad altissima tensione emotiva.