Cosa dicono gli studi sui figli delle coppie gay
Nel loro complesso le ricerche stabiliscono un consenso accademico schiacciante sul fatto che avere genitori omosessuali non danneggi i bambini
All’interno della vasta e confusa discussione sul ddl Cirinnà e le unioni civili, negli ultimi giorni si è rinvigorita quella sulla stepchild adoption: la possibilità che il genitore non biologico adotti il figlio, naturale o adottivo, del partner. Il ddl Cirinnà prevede un’estensione della stepchild adoption – già prevista per le coppie eterosessuali – anche alle coppie omosessuali e questo ha portato molti a discutere dei presunti problemi causati alla crescita dei bambini dal vivere con due genitori dello stesso sesso. Tra mercoledì 3 e giovedì 4 febbraio, diversi giornali italiani si sono occupati della cosa: Repubblica, per esempio, ha parlato di “Esperti divisi” e il Giornale, riprendendo una vaga dichiarazione del presidente della Società italiana di Pediatria ha titolato “Adozioni gay, i pediatri «possibili danni ai figli»”. Che gli “esperti siano divisi” tuttavia è un’imprecisione: gli esperti, nel mondo, sono infatti in gran parte d’accordo sul fatto che non ci siano problemi a crescere in una famiglia omogenitoriale.
La New Yorker Columbia University ha analizzato lo sviluppo dei figli nelle famiglie gay: su 77 studi accademici internazionali considerati in base a una serie di criteri, 73 hanno concluso che i figli di coppie omosessuali non si sviluppano in maniera diversa dai bambini cresciuti in famiglie eterosessuali. I 4 studi rimanenti non sarebbero attendibili perché hanno preso in considerazione casi di bambini di genitori separati.
73 su 77
Nel presentare il proprio resoconto, la New Yorker Columbia University spiega che gli studi inclusi sono stati selezionati da uno staff della Columbia Law School con il contributo di esperti in materia, accademici provenienti dalle università di tutti gli Stati Uniti e dall’estero e sotto la supervisione di un consiglio di consulenti. I criteri per la selezione sono stati molto rigidi e basati su credibilità, rilevanza e utilità. Tutti gli studi dovevano essere peer-reviewed (valutati cioè da specialisti del settore), essere stati pubblicati su una rivista scientifica e direttamente rilevanti per la questione considerata. L’obiettivo di questo resoconto non era scegliere le ricerche che condividono o hanno in comune una particolare posizione o teoria, ma includere la più ampia gamma di ricerche accademiche in modo da farsi un’idea generale dello stato attuale delle conoscenze degli studiosi su un dato argomento. Le conclusioni del resoconto, infine, non portano necessariamente a nuovi risultati, ma possono rafforzare le conoscenze esistenti e consolidare quello che questi studi precedenti hanno già dimostrato.
Dei 77 studi accademici sull’omogenitorialità presi in considerazione, il più vecchio è del 1980, altri 9 risalgono agli anni Ottanta, 12 agli anni Novanta e i restanti 55 sono stati fatti dopo il 2000. Di questi ultimi, quattro sono stati fatti nel 2015. Alcune delle ricerche si basano su metodi statistici (quando il campione studiato viene scelto con metodi statistici), molte altre sul cosiddetto “campionamento di convenienza” talvolta accusato di distorsione perché non offre a tutte le unità della popolazione la stessa possibilità di entrare a far parte del campione e di non essere quindi rappresentativo della popolazione reale. La New Yorker Columbia University dice però che il “campionamento di convenienza”, soprattutto nel campo degli studi sociologici e di psicologia sociale, non è considerato un metodo difettoso, ma semplicemente un metodo con dei limiti di generalizzabilità che vanno tenuti in conto. Al contrario, però, il “campionamento di convenienza” può avere dei vantaggi perché i ricercatori possono seguire direttamente gli individui che fanno parte dello studio e possono notare cambiamenti e dettagli anche di piccola portata, che sfuggirebbero in uno studio statistico più ampio.
Su 77 studi, 73 hanno concluso che i figli di coppie omosessuali non si sviluppano in maniera diversa dai bambini cresciuti in famiglie eterosessuali. Nel presentare il proprio resoconto sulle ricerche la New Yorker Columbia University scrive dunque che «nel loro insieme» queste ricerche formano «un consenso accademico schiacciante sul fatto che avere un genitore gay o una genitrice lesbica non danneggi i bambini».
Qualche esempio
Una delle ricerche considerate è stata condotta in Italia da Roberto Baiocco professore associato alla facoltà di medicina e psicologia della Sapienza di Roma insieme ad altri ricercatori. Baiocco ha preso in considerazione 40 famiglie composte da genitori dello stesso sesso e 40 famiglie composte da genitori eterosessuali nel contesto italiano. E dice:
«La letteratura sottolinea che le famiglie con madri lesbiche e padri gay sono simili a quelle composte da genitori eterosessuali, per quanto riguarda il funzionamento della famiglia, la soddisfazione diadica (che valuta il grado di felicità o infelicità percepito, ndr) e lo sviluppo del bambino. (…) I dati raccolti in questo studio hanno dimostrato che i bambini cresciuti da genitori gay e lesbiche hanno mostrato un livello di regolazione delle emozioni e di benessere psicologico simile a quello dei bambini cresciuti da genitori eterosessuali. In Italia, persistono atteggiamenti negativi nei confronti delle famiglie dello stesso sesso e dovrebbero essere sviluppati programmi educativi per decostruire gli stereotipi riguardanti gay e lesbiche».
Nel resoconto della New Yorker Columbia University è stata inserita anche una vasta ricerca australiana del 2014 secondo la quale i figli e le figlie di genitori dello stesso sesso hanno un maggior stato di salute e benessere rispetto alla media dei loro coetanei. Lo studio è stato condotto a partire dal 2012 da un gruppo di ricercatori dell’università di Melbourne su 315 genitori (80 per cento donne, 18 per cento uomini e 2 per cento di altro genere) e su 500 bambini tra zero e diciassette anni, con l’obiettivo di misurare il loro stato di salute, ossia il loro benessere fisico, mentale e sociale. Lo studio si basa sulla definizione di “salute” data dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, intesa non semplicemente come “assenza di malattia o infermità” e si basa sui risultati delle relazioni fornite volontariamente da alcuni genitori.
Gli indicatori utilizzati per i questionari avevano a che fare con autostima, emotività, tempo trascorso con i genitori, stato di salute e coesione familiare. In particolare i risultati mostrano che i bambini cresciuti in una same-sex family ottengono i punteggi più alti (del 6 per cento superiori a quelli della popolazione in generale) per quanto riguarda la salute e la coesione familiare. Questo avviene soprattutto perché i genitori dello stesso sesso sfuggono ai cosiddetti ruoli di genere, per cui tradizionalmente la donna resta a casa a prendersi cura dei bambini e il padre esce dalla casa per lavorare e mantenere la famiglia. In una coppia dello stesso sesso c’è più libertà rispetto gli stereotipi di genere e i ruoli si adattano maggiormente ai desideri e alla propensione dei singoli, maschi o femmine che siano.
Lo studio ha poi analizzato la “salute” di questi bambini in relazione alle discriminazioni a cui sono sottoposti durante lo sviluppo, che vanno dai commenti alle prese in giro, dal bullismo all’omofobia fino al rifiuto. Più è forte la stigmatizzazione (che riguarda due bambini su tre) più questa influisce negativamente su quei dati di salute e benessere; ma comunque non influisce abbastanza da modificare il risultato finale sul confronto con la popolazione in generale. Secondo il report pubblicato durante lo studio, a causa della situazione in cui si trovano, questi bambini hanno un maggior desiderio di comunicare e affrontare con i loro genitori quello che subiscono. E il modo in cui le discriminazioni vengono affrontate in famiglia ha su di loro effetti positivi: favorisce la loro apertura mentale, rafforza il loro carattere e anche il loro legame con i genitori.
Un altro studio è stato condotto dal Research Institute of Child Development and Education dell’Università di Amsterdam in collaborazione con il Williams Institute dell’Università della California e si occupa dei figli e delle figlie adolescenti delle coppie lesbiche olandesi sostenendo che i loro eventuali problemi in età adolescenziale non sono dovuti alla tipologia della famiglia in cui sono cresciuti e cresciute, ma alla stigmatizzazione sociale della loro condizione. La ricerca ha messo a confronto 67 adolescenti olandesi (36 femmine e 31 maschi) con un’età media di poco più di 16 anni cresciuti con coppie lesbiche fin dalla nascita con altrettanti adolescenti cresciuti con coppie eterosessuali.
I dati fanno parte di una ricerca più ampia e sono stati raccolti a partire dal 2000 in tre diverse fasi, quando cioè i bambini avevano un’età media di 5,8 anni, 9,9 anni e 16,6 anni. L’attuale studio si è concentrato principalmente sui dati dell’ultima fase. Il 93 per cento degli adolescenti considerati sono stati cresciuti da madri lesbiche nel contesto sociale e culturale olandese e con almeno una delle due madri con un livello alto di istruzione. L’81 per cento delle coppie di madri degli adolescenti intervistati erano ancora insieme, e il restante 19 per cento si era invece separata.
I parametri considerati avevano a che fare con problemi di interiorizzazione e problemi comportamentali esternalizzati: per esempio è stato chiesto agli adolescenti e alle loro madri di assegnare un punteggio ad affermazioni quali “preferisco stare da solo piuttosto che con gli altri” o “mi sento in colpa” accanto a frasi quali “urlano molto”, “infrangono le regole a casa, a scuola, o altrove”, “hanno molti conflitti” e così via.
I risultati contestano una serie di stereotipi legati alla crescita, alla salute e al benessere dei bambini cresciuti in famiglie in questo caso lesbiche e cioè la paura che lo sviluppo dell’identità sessuale dei bambini sia danneggiato dall’avere genitori omosessuali, la paura riguardo lo sviluppo della personalità in generale con maggiore fragilità psichica, la paura di maggiori difficoltà di stringere relazioni. I dati mostrano invece che disturbi comportamentali, psicologici e di scarsa integrazione sociale (i disturbi della cosiddetta Minority Stress Theory) sarebbero presenti in entrambe le tipologie di famiglia senza differenze rilevanti.
I maggiori problemi comportamentali di adolescenti figli di coppie lesbiche risultano invece dal rapporto con ambienti sociali inospitali: «la stigmatizzazione omofoba è l’attitudine negativa che individui, gruppi o comunità hanno nei confronti dell’identità o del comportamento non eterosessuale e la discriminazione che accompagna questa attitudine». Dunque, più si sono dimostrate forti le discriminazioni a cui questi bambini sono stati sottoposti durante lo sviluppo (dai commenti alle prese in giro, dal bullismo all’omofobia fino al rifiuto) più sono i problemi dimostrati: sarebbero le stigmatizzazioni e non l’orientamento sessuale dei genitori ad aver influito in modo negativo, ma non abbastanza almeno nel contesto olandese da modificare il risultato finale sul confronto con le cosiddette famiglie tradizionali. Risultato che non permette di superare i problemi degli adolescenti che si trovino in simili contesti, ma indica che la soluzione è nel proseguimento della crescita e dell’adeguamento culturale delle comunità a questo genere di famiglie, che passa innanzitutto per l’attribuzione alle stesse di famiglie di identiche condizioni e diritti.
Tra gli studi condotti non con un “campionamento di convenienza” ma con un metodo statistico c’è ad esempio quello fatto nel 2010 dal ricercatore della Stanford University Michael Rosenfeld che ha utilizzato i dati del censimento del 2000 negli Stati Uniti per esaminare la situazione scolastica di 3.500 bambini cresciuti con genitori dello stesso sesso. I risultati mostrano che non ci sono differenze significative nel progresso scolastico tra bambini cresciuti in famiglie omogenitoriali e bambini cresciuti in famiglie eterosessuali. Le coppie eterosessuali sposate sono la tipologia di famiglia i cui figli hanno i tassi più bassi di bocciatura, ma il vantaggio, dimostra il ricercatore, è in gran parte dovuto a una condizione socio-economica più elevata. In generale, poi, la resa scolastica dei bambini cresciuti in una famiglia (comprese quelle omogenitoriali) è più alta rispetto a quella dei bambini che vivono negli orfanotrofi.
Gli altri
I quattro studi che non sono arrivati alle conclusioni degli altri 73 non sono stati giudicati affidabili per valutare la crescita di un bambino in una famiglia omogenitoriale: le ricerche hanno infatti preso in considerazione casi di coppie eterosessuali che hanno cresciuto i loro figli per un periodo di tempo, ma che poi sono entrate in crisi a causa della dichiarata omosessualità di uno dei due genitori che o ha lasciato la famiglia o ha avuto una relazione con una persona del suo stesso sesso. Il risultato è dunque quello di una famiglia che ha sopportato uno stress e spesso una separazione. Alcuni di questi bambini sono stati però inseriti negli studi come se fossero stati «cresciuti da genitori dello stesso sesso»: ma questo, dice la New Yorker Columbia University, è «fuorviante» e «impreciso» dal momento che questi bambini sono stati generalmente allevati da famiglie di sesso opposto e solo più tardi, dopo una separazione, hanno vissuto in famiglie omogenitoriali o con un genitore omosessuale.
Un precedente in Italia
Nel 2013 la Prima Sezione della Corte di Cassazione italiana aveva emesso una sentenza (la 601/2013) molto importante: non aveva accolto il ricorso presentato da un padre, di religione musulmana, contro la sentenza con cui la Corte d’appello di Brescia aveva stabilito l’affidamento esclusivo del figlio minore alla madre, una ex tossicodipendente, che successivamente era andata a convivere con una delle educatrici che aveva conosciuto in una comunità di recupero. Nella sentenza si legge che «alla base della doglianza del ricorrente non sono poste certezze scientifiche o dati di esperienza, bensì il mero pre-giudizio che sia dannoso per l’equilibrato sviluppo del bambino il fatto di vivere in una famiglia incentrata su una coppia omosessuale (…) In tal modo si dà per scontato ciò che invece è da dimostrare, ossia la dannosità di quel contesto familiare per il bambino».
Nel dibattito comune sulla omogenitorialità si dà insomma per scontata l’inversione dell’onere della prova: l’onere di provare la “bontà” della famiglia omogenitoriale è attribuita a chi la vuole difendere e non a chi la accusa di non essere “normale”. La sentenza 601 del 2013 ha stabilito invece in linea di principio che tale accusa è senza fondamento e che dovrebbe spettare ai contrari dimostrare la fondatezza delle loro affermazioni, non ai soggetti discriminati. E questo perché contro l’omogenitorialità non c’è alcuna «certezza scientifica» ma solo «il pregiudizio».