Cosa si dice dell’attacco di giovedì a Gerusalemme
Tre palestinesi hanno ucciso un'agente di polizia, ma è stato un attacco diverso e più preoccupante di quelli recenti
Un’agente della polizia di frontiera israeliana è stata uccisa a Gerusalemme durante un attacco alla Porta di Damasco, una delle entrate alla Città vecchia, il 3 febbraio. Un’altra poliziotta è rimasta ferita e gli autori dell’attacco, tre palestinesi poco più che ventenni, armati di pistole, coltelli ed esplosivi artigianali, sono stati uccisi da altri agenti. Gli attentatori erano della città di Qabatiya, nel nord della Cisgiordania. L’intervento degli agenti della polizia di frontiera ha probabilmente scongiurato la realizzazione del piano originale dei tre palestinesi, che hanno aggredito gli agenti dopo che questi gli avevano chiesto di mostrare i documenti. Secondo la stampa israeliana e diversi esperti militari, la scelta di un obiettivo nella zona turistica della città indica che i tre avessero progettato un attacco più organizzato rispetto a quelli che negli ultimi mesi hanno colpito i checkpoint tra la Cisgiordania e Israele.
Da ottobre 26 israeliani sono stati uccisi negli attacchi di cittadini palestinesi; nella maggior parte dei casi si è trattato di accoltellamenti. Le forze dell’ordine e di sicurezza israeliane hanno ucciso almeno 155 palestinesi, tra cui 101 assalitori, secondo il conteggio del Guardian. Le violenze sono ricominciate con maggiore intensità l’1 ottobre, quando una coppia di israeliani è stata uccisa mentre stava viaggiando in macchina tra due colonie israeliane; ma già nel mese di settembre manifestanti palestinesi e forze dell’ordine israeliane si erano scontrate a Gerusalemme a causa delle restrizioni d’accesso alla Spianata delle moschee decise dal governo israeliano. La maggior parte degli attacchi sono stati commessi da persone isolate, spesso molto giovani e armate di semplici coltelli da cucina. L’ultimo attacco con un coltello è avvenuto la mattina del 4 febbraio: due ragazzine palestinesi di 13 anni hanno leggermente ferito una guardia di sicurezza alla stazione di Ramla, in Israele.
Cosa è successo mercoledì a Gerusalemme
Sembra che gli autori dell’attacco di ieri non appartenessero a un’organizzazione terroristica. In questo non si distinguono dalla maggior parte degli attentatori che negli ultimi mesi hanno colpito cittadini, agenti di polizia e militari israeliani. Due dei tre giovani erano seduti su una panchina vicino alla Porta di Damasco, quando uno degli agenti della polizia di frontiera – peraltro responsabile delle due colleghe, che non avevano ancora completato il periodo di addestramento – ha chiesto loro di mostrare i documenti. Uno dei due ha tirato fuori la carta d’identità, mentre l’altro ha estratto una pistola e ha sparato a un’altra agente, Hadar Cohen, 19 anni, che è morta poco dopo all’ospedale Hadassah. Il secondo attentatore ha ferito una terza agente con un coltello e poi è stato ucciso dal poliziotto che gli aveva chiesto i documenti. Nel frattempo è arrivato il terzo palestinese, armato con una pistola, ma un poliziotto gli ha sparato prima che potesse colpire qualcuno. L’esercito israeliano ha circondato Qabatiya dopo l’attentato e controlla chiunque voglia entrare o uscire dalla città. Inoltre sta indagando per trovare eventuali complici.
Perché questo attacco potrebbe essere diverso dagli altri
Su Haaretz l’esperto di tattiche militari Amos Harel ha scritto che l’attacco del 3 febbraio si distingue dai precedenti non solo perché opera di tre diverse persone, ma anche perché ha richiesto una pianificazione più sofisticata. Gli attentatori si sono procurati diversi tipi di armi, hanno guidato dal nord della Cisgiordania fino a Gerusalemme e sono riusciti a superare le barriere con Israele: forse avevano trovato un modo per non essere perquisiti, oppure potrebbero aver preso le armi da complici che già si trovavano a Gerusalemme. Probabilmente avevano intenzione di colpire molte persone, dato che avevano armi da fuoco ed esplosivi, e hanno deciso di compiere l’attacco nella Città vecchia.
Da mesi lo Shin Bet, l’agenzia di intelligence israeliana che si occupa degli affari interni, cerca di trovare un modo per fermare i terroristi che agiscono di propria iniziativa e dunque risultano imprevedibili. Un attacco organizzato da un gruppo di persone avrebbe dovuto invece essere evitato più facilmente, secondo Harel.
Il Times of Israel sottolinea che i tre attentatori sono parenti di membri di Fatah, il movimento di Mahmoud Abbas che è a capo dell’Autorità Nazionale Palestinese. Il cugino di uno dei tre, Ali Zakarna, è portavoce di Fatah e ha detto che i giovani erano amici di un ragazzo ucciso dalle forze di sicurezza israeliane a novembre, quando aveva cercato di accoltellare un soldato a un checkpoint in Cisgiordania. Secondo Ali Zakarna i tre hanno organizzato l’attacco anche per vendicare la morte dell’amico. Molti militanti di Qabatiya che hanno compiuto attentati in passato appartenevano alla stessa cerchia sociale, spiega Harel su Haaretz, e pare che tra i moventi dei loro attacchi ci siano l’imitazione di chi li ha preceduti e il desiderio di vendetta. Anche in altre località palestinesi è accaduta la stessa cosa: cinque diversi attentatori del villaggio di Sair, a nord di Hebron, sono stati uccisi in cinque diversi attacchi.
Il corrispondente da Gerusalemme di Le Monde riporta l’analisi degli esperti dell’esercito israeliano, secondo cui dall’inizio delle violenze a oggi sono diminuite sia la partecipazione dei palestinesi alle manifestazioni contro Israele sia la frequenza degli attacchi. In media ce ne sono stati tre al giorno a ottobre, due tra novembre e dicembre, mentre dall’inizio del 2016 sono scesi a uno al giorno. Rimane però che l’attacco del 3 febbraio non è stato un’aggressione impulsiva, ma premeditata e bene organizzata. Il generale Nitsan Alon, direttore delle operazioni militari, ritiene che Hamas stia cercando di influenzare i palestinesi a commettere attentati anche se non è direttamente responsabile dell’organizzazione degli attacchi. Hamas ha lodato gli autori dell’attacco del 3 febbraio, pur non rivendicandolo.