Il ritorno di Magic Johnson, 20 anni fa
Il 30 gennaio 1996 si rivide in campo uno dei più grandi giocatori NBA di sempre, che quattro anni e mezzo prima aveva annunciato il suo ritiro per avere contratto l'HIV
Il 30 gennaio del 1996 a Los Angeles si giocò la partita NBA tra Golden State Warriors e Los Angeles Lakers. Era una partita di stagione regolare – quindi non c’era l’attesa che si crea solitamente durante i playoff – ma i giornali sportivi americani non parlavano d’altro: perché quella era la prima partita del ritorno in campo di Earvin Johnson, conosciuto da tutti come Magic Johnson, storico playmaker dei Lakers che quattro anni e mezzo prima aveva annunciato inaspettatamente il suo ritiro. Aveva contratto l’HIV e non poteva più giocare, aveva detto, perché doveva curarsi. La sera del 30 gennaio Magic Johnson entrò in campo nel primo quarto della partita, a 36 anni, tra gli applausi di tutto il palazzetto: sul soffitto del “Forum” – l’impianto dove hanno giocato i Lakers fino al 1999 – era già stata appesa la sua maglia, ritirata nel 1992 durante una cerimonia molto emozionante. Johnson quella sera giocò 27 minuti: fece 19 punti, 10 assist e prese 8 rimbalzi (l’entrata in campo di Johnson è al minuto 1:06).
Al momento del suo ritiro, Johnson era considerato uno dei giocatori più forti di sempre. Aveva giocato tutta la sua carriera nei Los Angeles Lakers (iniziata in NBA nel 1979), era arrivato per nove volte alle finali dei playoff e aveva vinto cinque titoli. Giocava un basket spettacolare e molto divertente – a cui la stampa sportiva si riferiva spesso con l’espressione “Showtime” – ed era un giocatore unico, un playmaker che faceva un mucchio di assist ma prendeva anche moltissimi rimbalzi: poteva giocare in molti ruoli oltre a quello di playmaker, segnava anche di gancio (un movimento che fu soprannominato “baby-hook”) e guidava in maniera incredibilmente imprevedibile i contropiede della sua squadra. Con Larry Bird (Boston Celtics) sviluppò la rivalità più famosa e appassionante della storia NBA ma perse la sua ultima finale NBA, quella del 1991, giocando contro i Chicago Bulls di Michael Jordan. Nel novembre del 1991 Johnson aveva 32 anni: aveva chiesto di fare alcuni esami del sangue perché non si sentiva troppo bene. Se li fece rifare altre due volte prima di convincersi di avere davvero contratto l’HIV.
ESPN ha raccontato così quello che successe il 7 novembre 1991, il giorno dell’annuncio del ritiro:
«7 novembre, 1991. La telefonata arriva la mattina presto, “alle 14 la conferenza stampa al Forum”, dice l’ufficio stampa ufficiale dei Lakers. “Un annuncio grosso. Riguarda Magic”. “I Lakers hanno annunciato una conferenza stampa”, dice in maniera nervosa un annunciatore radio. “L’annuncio ha a che fare con Magic Johnson, che è fuori dalla formazione dalla scorsa settimana a Utah. Magic potrebbe stare fuori per più tempo rispetto a quanto anticipato”. Ai media arriva la notizia che Johnson è malato. Molto malato.
[…] Quella mattina Johnson telefona ai suoi amici più stretti, uno dopo l’altro – Larry Bird, Isiah Thomas, Michael Jordan e Pat Riley – per dire loro che dovrà ritirarsi, che è positivo all’HIV e che voleva che lo sapessero da lui, non dai media. Magic arriva al Forum verso mezzogiorno. Dunleavy [l’allora allenatore dei Lakers, ndr] raduna tutti i Lakers nello spogliatoio prima della conferenza stampa. Magic entra, vestito in giacca e cravatta. Dice che si deve ritirare. Si mettono a piangere tutti.
Quando Magic entra in sala stampa c’è silenzio e tensione. Lui è serio. È seguito da vari dirigenti dei Lakers. Magic sale sul podio. Flette la testa e parla al microfono, annunciando, “A causa del virus che ho contratto, dovrò ritirarmi dai Lakers”. Nell’affollata sala stampa tutti rimangono immobili, sconvolti, paralizzati. Molti si commuovono. Ma non c’è nemmeno una lacrima negli occhi di Johnson.»
In quegli anni – la fine degli Ottanta, inizi Novanta – la conoscenza del virus dell’HIV era ancora molto limitata e spesso associata inevitabilmente all’AIDS. Solo fino a pochi anni prima non si sapeva nemmeno come definire e chiamare la malattia. Furono utilizzate diverse definizioni, tra cui la più nota fu per un certo periodo “la malattia delle 4H”, perché si pensava riguardasse solamente gli haitiani, gli omosessuali (“homosexuals” in inglese), gli emofiliaci (“hemophiliacs”) e gli eroinomani (“heroin users”). Quando Johnson fece il suo annuncio, le ricerche scientifiche avevano già stabilito che il virus poteva essere contratto da chiunque e non solo da determinate categorie di persone, ma per l’opinione pubblica rimaneva comunque una malattia confinata prevalentemente a chi era omosessuale. Quel giorno Johnson disse anche: «A volte pensiamo che solo i gay la possano contrarre, ma non è quello che è successo a me. E qui vi sto dicendo che può succedere a chiunque, anche a me, Magic Johnson».
Nonostante il suo ritiro, Magic Johnson fu votato dai tifosi per giocare all’All Star Game che nel 1992 si tenne alla Orlando Arena, in Florida. Diversi giocatori – tra cui i due suoi ex compagni di squadra ai Lakers Byron Scott e A. C. Green – si opposero alla partecipazione di Johnson alla partita che tutti gli anni si gioca tra le selezioni dei migliori giocatori della Western Conference e della Eastern Conference. Tra coloro che si opposero ci fu anche Karl Malone (Utah Jazz), che parlò degli alti rischi di contrarre il virus nel caso in cui Johnson avesse perso sangue per una ferita durante la partita. Magic però giocò lo stesso, nella selezione della Western Conference dove tra gli altri c’era anche Malone: Isiah Thomas, il giocatore più rappresentativo dei Detroit Pistons, organizzò un incontro tra i giocatori che alla fine decise di dare l’assenso. Johnson fu accolto da una rumorosa standing ovation prima della partita e fu abbracciato da tutti i suoi avversari della selezione dell’Est. Poi giocò una grande partita: segnò 25 punti, fece 9 assist (alcuni bellissimi) e fu nominato MVP dell’All Star Game.
Dopo l’All Star Game, nell’estate dello stesso anno, Magic Johnson fu chiamato a far parte della nazionale statunitense alle Olimpiadi che si tennero a Barcellona: quella squadra fu soprannominata “Dream Team” ed è ancora oggi considerata da molti la squadra più forte di sempre, in qualsiasi sport (oltre a Johnson, che comunque giocò poco a causa di un problema a un ginocchio, c’erano anche Larry Bird, Michael Jordan, Patrick Ewing, David Robinson e Charles Barkley, tra gli altri). Prima di ritornare a giocare nel 1996, Johnson fu assunto come capo allenatore dei Los Angeles Lakers alla fine della stagione 1993-1994, con risultati non eccezionali. Nel periodo di inattività continuò a organizzare iniziative per sensibilizzare l’opinione pubblica sul tema del virus HIV e lavorò per un periodo come commentatore sportivo. Poi, il 29 gennaio del 1996, annunciò il suo ritorno, che la Gazzetta dello Sport ha definito il secondo più famoso della storia della NBA (il più famoso è considerato quello di Michael Jordan, che annunciò di voler tornare a giocare coi Chicago Bulls nella primavera del 1995 dopo essersi ritirato una prima volta e avere giocato per un breve periodo a baseball).
Magic Johnson – che nel frattempo era piuttosto ingrassato – giocò la sua prima partita il 30 gennaio del 1996 contro i Golden State Warriors. Due settimane dopo, il 14 febbraio, fece registrare la sua ultima “tripla doppia” della sua carriera, quando nella partita giocata contro gli Atlanta Hawks segnò 15 punti, fece 13 assist e prese 10 rimbalzi. Giocò fino alla fine della stagione – in totale 32 partite, 22 vinte e 10 perse – ma i Lakers furono eliminati al primo turno dei playoff dagli Houston Rockets. Il suo ritorno fu considerato positivo da molti commentatori, anche se creò diversi problemi in squadra: uno dei giocatori che presero meno bene la nuova situazione fu Cedric Ceballos, che all’epoca era il miglior marcatore dei Lakers e che a causa del ritorno di Johnson cominciò a giocare meno (e lasciò la squadra per diverse partite). Alla fine della stagione 1995-1996 Johnson annunciò il suo definitivo ritiro dalla NBA: «Sono stato soddisfatto del mio ritorno in NBA, nonostante speravo potessimo arrivare più avanti nei playoff. Ma ora sono pronto a lasciare per davvero. È tempo di andare avanti».