Perché ci abbuffiamo
C'entra la memoria, oppure il peso del nostro amico o quanto è grande il tavolo, dicono diversi studi: e anche il fatto che «non siamo poi tanto diversi dai cani»
di Roberto A. Ferdman – Washington Post
Quasi vent’anni fa il professore di psicologia e biologo Paul Rozin decise di verificare una teoria sull’alimentazione. Molte persone pensano che il loro corpo sia in grado di segnalare quando iniziare e smettere di mangiare: Rozin però non ne era convinto. «Molti dei fattori che determinano cosa e quanto mangiamo non hanno niente a che vedere con lo stato della nostra alimentazione», aveva raccontato Rozin al New York Times nel 1998.
Il suo esperimento – pubblicato sulla rivista Psychological Science – era tanto semplice quanto ingegnoso: Rozin servì un pasto a due pazienti affetti da una forma grave di amnesia, la cui memoria era stata danneggiata dalla malattia e che avevano difficoltà a ricordare eventi accaduti a più di un minuto di distanza. Diede quindi da mangiare ai pazienti una seconda e terza volta, ad almeno dieci minuti l’una dall’altra. Rozin ripeté l’esperimento in tre occasioni distinte e ogni volta il risultato fu lo stesso: i pazienti mangiavano con gusto il cibo che veniva loro servito. Uno dei due, dopo aver pranzato per la terza volta, disse addirittura di avere in programma di «farsi una passeggiata e comprarsi qualcosa di buono da mangiare». «Senza l’aiuto della memoria, quello che i pazienti avevano mangiato in precedenza non influì in nessun modo su quanto mangiarono la seconda o la terza volta», ha detto David Just, professore di economia comportamentale alla Cornell University nello stato di New York, che si occupa di scelte alimentari dei consumatori. «Fu affascinante: questa convinzione diffusa in realtà non reggeva». Le aree del cervello che provocavano il senso di sazietà e fame sembravano non funzionare se i pazienti non erano in grado di ricordare cosa avessero effettivamente mangiato. Sembrava esserci qualcosa di più importante degli effetti fisiologici della nutrizione, dell’attivazione delle papille gustative e della digestione delle calorie. Rozin non ha risposto alla nostra richiesta di un suo commento. Secondo il suo studio, la memoria «ha svolto un ruolo notevole nel causare l’inizio o la fine di un pasto».
Oggi – nonostante il lavoro di Rozin e altre ricerche secondo le quali i nostri corpi non sarebbero le infallibili bussole alimentari che vorremmo fossero – quest’idea sbagliata è ancora diffusa, e le persone si ostinano a voler credere che il loro stomaco sia in grado di segnalare quando mangiare e quando smettere di farlo. «Non siamo fatti così», ha detto Just, secondo cui questo equivoco ha un peso rilevante nella tendenza prevalente a mangiare in modo eccessivo.
È naturale che i nostri modelli alimentari abbiano degli alti e bassi, a seconda delle circostanze: ci sono giorni in cui mangiamo di più di altri, e va bene, finché facciamo delle variazioni per assecondare i nostri periodi di golosità. In realtà, però, le nostre variazioni non dipendono tanto dal senso di sazietà, quanto piuttosto dal fatto di ricordare o meno cosa abbiamo mangiato durante il giorno o la settimana. In questo senso, la nostra memoria non è affidabile. Anche se non consumiamo tre pasti in rapida successione come i partecipanti al test di Rozin, la pizza che abbiamo mangiato a pranzo non condizionerà il resto dei nostri pasti durante il giorno o la settimana, come invece potremmo pensare. «Non siamo così bravi a ricordare cosa abbiamo mangiato in precedenza», ha detto Just, «e anche quando ci riusciamo, non siamo bravi a compensare».
I dettagli contano
La memoria è solo uno dei sottili ma potenti fattori che influenzano le nostri abitudini alimentari. Alcuni di questi fattori sono semplici e piuttosto intuitivi, come la dimensione del nostro piatto – che modifica la quantità del cibo che mangiamo – o la presenza di un televisore acceso, che sortisce lo stesso effetto. «Non credo che le persone siano totalmente all’oscuro di queste dinamiche, ma non sono sicura che si rendano davvero conto di quanto influenzino la quantità di cibo che ingeriscono», ha detto Traci Mann, professoressa di psicologia della University of Minnesota e studiosa di abitudini alimentari, autocontrollo e diete da oltre vent’anni. «Ma si fanno sentire. Se si mangia il 10-15 per cento in più a ogni pasto, si sente», ha detto Mann.
Ci sono però anche modi meno ovvi in cui siamo condizionati. Un recente studio ha scoperto che anche elementi innocui come la dimensione del tavolo possono alterare la percezione del cibo che abbiamo di fronte: più il tavolo è grande, più sarà difficile capire se ci è stato servito meno cibo, e più facilmente avvertiremo il senso di sazietà.
Anche sottili fattori sociali hanno un effetto. Un altro studio pubblicato il mese scorso ha scoperto come i clienti di un ristorante siano portati a ordinare “un numero di portate decisamente più alto”, se serviti da un cameriere sovrappeso. Uno studio del 2014 ha mostrato come anche il peso delle persone con cui mangiamo modifichi la quantità e la qualità del cibo che scegliamo: quando sono accompagnate da un amico sovrappeso, le persone di solito mangiano di più e in modo meno salutare. Secondo Just «le persone con cui siamo influenzano molto quanto mangiamo. Sappiamo, per esempio, che quando siamo in fila a un buffet, facciamo attenzione alle persone davanti a noi. Se chi ci precede prende molto cibo, non solo ci sentiamo legittimati a fare altrettanto, ma pensiamo che le persone se lo aspettino, e che sembreremmo strani se facessimo diversamente». «Il nostro istinto naturale ci porta a integrarci, e a volte integrarsi significa mangiare più di quanto dovremmo o vorremmo fare», ha aggiunto.
Il nostro istinto naturale ci porta però anche a mangiare, banalmente. Quando mangiamo, secondo Mann, non sono i nostri stomaci a dirci di fermarci: questo accade dopo, quando abbiamo finito. Anche per questo motivo la comodità è molto pericolosa. «La questione è semplice: più è facile mangiare, più saremo portati a farlo», ha detto Mann, autrice di Secrets from the Eating Lab (Segreti dal laboratorio alimentare), che esamina i motivi per cui le diete non funzionano. «Se abbiamo appena fatto la spesa, mangeremo di più, e lo stesso accade quando siamo a un buffet o se il cibo è a portata di mano». Just è giunto alle stesse conclusioni durante la sua ricerca al Cornell Food and Brand Lab, che co-gestisce. «Un gesto banale come riporre il cibo in dispensa invece che su un tavolo può essere molto utile», ha detto.
Abituarsi a mangiar meno
La buona notizia è che ci sono delle contromisure. Una delle più semplici è porre delle barriere tra noi e il cibo, ma ne esistono altre che si sono dimostrate sorprendentemente efficaci. Una delle più utili, secondo Mann, è “mangiare in modo consapevole”. «Le persone tendono a mangiar meno quando lo fanno in modo più concentrato e attento: aiuta a far caso non solo a ogni pasto, ma a ogni singolo morso. Essere più consapevoli di ciò che ingeriamo porta a stabilire un contatto con il pasto». Un altro metodo – per quanto sembri improbabile – è sforzarsi di mangiare cibi che abbiano un sapore migliore. «So che è controintuitivo, ma mangiare alimenti più buoni ci soddisfa più velocemente», ha spiegato Just. «Mentre quando mangiamo del cibo dal sapore passabile ma non squisito, finiamo per mangiare di più per raggiungere lo stesso livello di soddisfazione. È ampiamente dimostrato».
Tutti i trucchetti, le strategie e i cambiamenti fastidiosi che dobbiamo fare per controllare la nostra linea sono però il risultato di una verità scomoda, su cui Rozin provò a far luce quasi vent’anni fa. «Ci piace pensare di essere fatti in modo da tale da ponderare e controllare cosa e quanto mangiamo», ha detto Just. «Ma la verità è che siamo fatti per mangiare tutte le volte che ne abbiamo l’opportunità. In questo senso, non siamo poi tanto diversi dai cani».
© The Washington Post 2016