Cosa fu il processo Eichmann
Fu il primo processo contro gerarchi nazisti a svolgersi in Israele e fu trasmesso in tv: lo ha raccontato un film che esce al cinema in questi giorni
In occasione della “Giornata della Memoria”, dal 25 gennaio e per altri due giorni in alcuni cinema italiani sarà proiettato “The Eichmann Show – Il processo del secolo”, film diretto da Paul Andrew Williams che racconta il lavoro del produttore televisivo Milton Fruchtman per organizzare le riprese TV del processo a uno dei più conosciuti gerarchi nazisti: Adolf Eichmann. Quello ad Eichmann fu il primo processo per crimini contro l’umanità a svolgersi in Israele e il primo evento di questo tipo ad essere trasmesso in televisione. Fino ad allora il processo più famoso contro gli ufficiali nazisti era stato quello di Norimberga che tra il 1945 e il 1946 ebbe un ruolo importantissimo nello stabilire innanzitutto che “eseguire gli ordini” non era una difesa legittima per atti criminali.
Otto Adolf Eichmann
Eichmann era nato a Solingen, una città della Renania famosa per i coltelli e le forbici, nel 1906. Nel 1914, dopo la morte della madre, si trasferì a Linz, in Austria, dove entrò a far parte delle SS, la Schutzstaffel, il corpo paramilitare del partito Nazionalsocialista tedesco a cui fu successivamente affidata la gestione della Gestapo, la polizia segreta del Terzo Reich. Nel 1938, in seguito all’Anschluss – l’annessione dell’Austria da parte della Germania nazista – Eichmann diventò il responsabile dell’espulsione degli ebrei austriaci dal territorio appena annesso. Nel frattempo fu promosso ufficiale delle SS e per il ruolo svolto in Austria divenne il braccio destro di Reinhard Heydrich, capo del servizio di sicurezza del Reich. Nel 1939 venne inviato a Praga per far emigrare forzatamente gli ebrei dalla Cecoslovacchia appena conquistata da Hitler, ma in questo caso le cose furono più complicate, dato che ormai erano pochissimi i paesi disposti ad accogliere ebrei in fuga dall’Europa. Nel gennaio del 1942, i vertici nazisti decisero di procedere con la cosiddetta “soluzione finale”, lo sterminio degli ebrei, e dal marzo dello stesso anno Eichmann fu il coordinatore e il responsabile dei carichi di deportati che cominciarono a confluire verso i campi di concentramento e sterminio di tutta Europa. Fu dunque uno dei principali esecutori materiali dell’Olocausto.
Alla fine della guerra, dopo essersi nascosto per qualche anno nelle campagne tedesche sotto falso nome, Eichmann riuscì ad ottenere un passaporto falso rilasciato dalla Croce Rossa a nome “Ricardo Klement”: l’11 novembre del 1950 si imbarcò su un piroscafo italiano nel porto di Genova e raggiunse l’Argentina. Qui entrò a lavorare negli stabilimenti della Mercedes vicino a Buenos Aires riuscendo anche a portare con sé la propria famiglia.
(Perché gli ex nazisti sono tutti in Sudamerica?)
Il figlio di Eichmann frequentava in Argentina una ragazza tedesca a cui si presentò con il suo vero cognome e a cui parlò del mancato compimento dello sterminio degli ebrei in Europa. La ragazza informò il padre, un ebreo sfuggito all’Olocausto, e l’informazione arrivò al Mossad, i servizi segreti israeliani. Dopo un lungo periodo di preparazione, i servizi segreti israeliani, sotto il primo ministro del paese Ben Gurion, organizzarono l’operazione di arresto: l’11 maggio del 1960 mentre Eichmann rientrava dal lavoro venne rapito (nel sistema giuridico argentino l’estradizione non era prevista) e nove giorni dopo venne trasferito in Israele a bordo di un volo speciale, travestito e imbottito di anestetico. Il pomeriggio del 23 maggio 1960, mentre alla Knesset era in corso un dibattito sul bilancio, Ben Gurion prese parola e annunciò che era stato catturato Adolf Eichmann. Lo definì «uno dei più grandi criminali di guerra nazisti» e disse che era «già in Israele in stato d’arresto». In Israele venne sottoposto a processo per i crimini di cui si era reso responsabile durante la guerra.
Il processo
Arrivato in Israele Eichmann passò i mesi prima del processo venendo interrogato quasi tutti i giorni: gli venne data la possibilità di scrivere le sue memorie e qualche linea che fosse utile alla sua difesa. Fino al giorno della sua esecuzione scrisse quasi diecimila pagine: annotazioni a trascrizioni di interviste, rapporti, revisioni e correzioni agli interrogatori. Prese molti appunti anche durante il processo che iniziò l’11 aprile del 1961 presso la corte distrettuale di Gerusalemme, che nell’ordinamento giurisdizionale del paese, era competente anche per gli affari extraterritoriali. Nell’aula erano disponibili 750 posti a sedere. Eichmann doveva rispondere di quindici imputazioni, avendo commesso, «in concorso con altri», crimini contro il popolo ebraico, crimini contro l’umanità e crimini di guerra sotto il regime nazista. La legge in base alla quale fu giudicato era del 1950 e prevedeva che una persona che avesse «commesso uno di questi crimini» fosse «passibile della pena di morte». Eichmann si dichiarò, per tutte e quindici le imputazioni, «non colpevole nel senso dell’atto di accusa».
Il processo di primo grado durò quattro mesi, vi furono circa 150 udienze e si svolse in ebraico, nonostante diverse volte i giudici rivolsero delle domande ad Eichmann in tedesco. Per la prima volta testimoniarono dei sopravvissuti, 112 in totale, e vi furono degli svenimenti in aula. I giudici erano tre. Per Eichmann, che era difeso da un avvocato di Colonia, scelto personalmente da lui e pagato dal governo israeliano perché la Germania si rifiutò di farlo, c’erano dei traduttori simultanei e per lui venne predisposta una gabbia di vetro a prova di proiettile nell’aula. L’intero processo venne registrato in esclusiva da una troupe americana.
Per tutta la durata del processo l’avvocato di Eichmann continuò a ripetere che l’imputato non poteva essere processato a Gerusalemme e Eichmann stesso si difese affermando che stava semplicemente eseguendo degli ordini: «Questi ebrei erano destinati ai campi di sterminio? Sì o no?», gli venne esplicitamente chiesto. E lui: «Non lo nego. Non l’ho mai negato. Ricevevo degli ordini e dovevo eseguirli in virtù del mio giuramento. Non potevo sottrarmi e non ho mai provato a farlo. Ma non ho mai agito secondo la mia volontà». E ancora: «Questo vuol dire che lei era totalmente passivo?». Eichmann: «Passivo, non direi proprio. Facevo ciò che ho appena detto, obbedendo ed eseguendo gli ordini che ricevevo (…) Io non ero un imbecille, ma ricevevo ordini».
Dopo quattro mesi dalla fine del processo, nel primo grado di giudizio, il 15 dicembre 1961, Eichmann venne riconosciuto colpevole di tutte le quindici imputazioni che gli erano state contestate. Il suo avvocato fece subito richiesta d’appello e il secondo processo a suo carico iniziò tre mesi dopo. La linea difensiva rimase la stessa ma l’avvocato difensore insistette nel dire che lo Stato d’Israele non era autorizzato a giudicare un cittadino argentino-tedesco. Inoltre venne criticata la condanna dicendo che in Israele mancavano testimoni e documentazioni utili alla difesa. Il processo d’appello davanti alla Corte Suprema durò circa una settimana, poi i giudici impiegarono altri due mesi per emanare la seconda sentenza. Il 29 maggio del 1962 i giudici confermarono il giudizio di primo grado. Il giorno stesso della lettura della sentenza il Presidente d’Israele Yitzhak Ben-Zvi ricevette la richiesta di grazia, manoscritta dallo stesso Eichmann. La richiesta fu respinta ufficialmente il 31 maggio 1962.
Eichmann Fu impiccato poche ore dopo in una prigione a Ramla, in Israele. Come stabilito dal verdetto il cadavere fu cremato e le sue ceneri vennero caricate su una motovedetta della marina israeliana e disperse nel Mar Mediterraneo al di fuori delle acque territoriali israeliane. Nel 2011 negli Archivi di Stato di Gerusalemme sono stati resi pubblici una serie di documenti legati al processo. I funzionari dell’Archivio scrissero che dopo la lettura della sentenza, «c’era chi si offrì volontario per impiccare Eichmann, animato dall’esigenza di vendicare congiunti uccisi dai nazisti». Ma c’era anche «una forte corrente di intellettuali che, per ragioni di principio, si opponeva strenuamente». Nel maggio 1962 scrissero: «Noi non vogliamo che questo aguzzino ci porti al punto che dalle nostre fila esca un boia. Se lo facessimo, elargiremmo all’aguzzino una specie di vittoria, una vittoria che non vogliamo». Tra loro c’erano il filosofo Martin Buber, lo scienziato Hugo Berman, il ricercatore Gershom Sholem.
Hannah Arendt e “La banalità del Male”
I più famosi e significativi resoconti del processo a Eichmann furono quelli della scrittrice e pensatrice tedesca Hannah Arendt per il New Yorker, poi raccolti e riorganizzati nel libro La banalità del male – Eichmann a Gerusalemme, pubblicato nel 1963 (nel 1951 Arendt aveva già pubblicato il suo capolavoro di filosofia politica, Le origini del totalitarismo, un classico nella storia del pensiero politico del Novecento).
Arendt, ebrea, cittadina americana e inviata a Gerusalemme, raccontò Eichmann come una persona tutto sommato ordinaria. E lo fece, di fatto, in contrapposizione con la propaganda dell’accusa del processo, cioè dell’appena nato Stato di Israele, che descriveva Eichmann come «assassino di un popolo», «nemico del genere umano», «belva nella giungla» che «non merita più di essere chiamato un uomo» (per lo Stato di Israele, il processo fu anche una potente legittimazione a livello mondiale).
Arendt non disse che Eichmann era semplicemente un burocrate, nonostante le sia stata attribuita questa versione che apparteneva piuttosto alla linea degli avvocati della difesa: per lei Eichmann rappresentava «l’assenza di pensiero» cioè l’assenza di una dimensione interiore etica della coscienza. Tale assenza di pensiero era anche assenza di responsabilità, ossia incapacità di elaborare il significato del proprio agire e dunque le sue conseguenze. In un altro scritto, per spiegare meglio la sua posizione, Arendt fece riferimento alla massima socratica “meglio subire il male che farlo” riferita al pensiero che per Arendt significava che era meglio avere a che fare, nel dialogo interiore del sé con se stesso, con un innocente piuttosto che con un criminale. Eichmann, come prodotto dell’ideologia totalitaria, era privo di questo specifico tipo di pensiero. Per questo era banale, perché in lui non c’era un male demoniaco, un male cioè come principio alternativo al bene. Dal processo emerse semplicemente un male come assenza e vuoto.
«Adolf Eichmann andò alla forca con gran dignità. Aveva chiesto una bottiglia di vino rosso e ne aveva bevuto metà. Rifiutò l’assistenza dei pastore protestante, reverendo William Hull, che si era offerto di leggergli la Bibbia: ormai gli restavano appena due ore di vita, e perciò non aveva “tempo da perdere”. Percorse i cinquanta metri dalla sua cella alla stanza dell’esecuzione calmo e a testa alta, con le mani legate dietro la schiena. Quando le guardie gli legarono le caviglie e le ginocchia, chiese che non stringessero troppo le funi, in modo da poter restare in piedi. “Non ce n’è bisogno”, disse quando gli offersero il cappuccio nero. Era completamente padrone di sé, anzi qualcosa di più: era completamente se stesso. Nulla lo dimostra meglio della grottesca insulsaggine delle sue ultime parole. Cominciò col dire di essere un Gottgläubiger, il termine nazista per indicare chi non segue la religione cristiana e non crede nella vita dopo la morte. Ma poi aggiunse: “Tra breve, signori, ci rivedremo. Questo è il destino di tutti gli uomini. Viva la Germania, viva l’Argentina, viva l’Austria. Non le dimenticherò”. Di fronte alla morte aveva trovato la bella frase da usare per l’orazione funebre. Sotto la forca la memoria gli giocò l’ultimo scherzo: egli si senti “esaltato” dimenticando che quello era il suo funerale.
Era come se in quegli ultimi minuti egli ricapitolasse la lezione che quel suo lungo viaggio nella malvagità umana ci aveva insegnato – la lezione della spaventosa, indicibile e inimmaginabile banalità del male».