Una settimana di scontri in Tunisia
Da domenica scorsa migliaia di manifestanti protestano contro la difficile situazione dell'economia tunisina: circa 100 sono rimasti feriti, il governo ha imposto un coprifuoco
In Tunisia da circa una settimana ci sono scontri tra polizia e gruppi di giovani che protestano contro la complicata situazione economica nazionale: per cercare di fermare gli scontri, nei giorni scorsi il governo tunisino ha anche imposto un coprifuoco, in vigore dalle otto di sera alle cinque di mattina. Le proteste contro le politiche economiche del governo sono cominciate domenica scorsa a Kasserine, una delle città più povere della Tunisia, e poi si sono rapidamente estese nel resto del paese. Il governo tunisino ha detto che finora negli scontri sono rimasti feriti 59 agenti di polizia e 40 manifestanti.
Diversi siti di news internazionali si sono occupati nei giorni scorsi delle nuove proteste, soprattutto perché la Tunisia è il paese dove nel 2010 iniziò la cosiddetta “primavera araba”, ovvero quell’insieme di movimenti di protesta che portarono alla caduta di diversi regimi autoritari che erano al potere da decenni in diversi paesi arabi. Rispetto a tutti gli altri paesi coinvolti nelle “primavere arabe”, finora la Tunisia è sembrato quello che ne è uscito meglio: le proteste portarono alla caduta del dittatore Zine el Abidine Ben Ali e da allora è iniziato un processo di democratizzazione che, seppur con diversi problemi, viene considerato ancora oggi come un “modello” per gli altri paesi arabi (per esempio, il premio Nobel per la Pace 2015 è stato vinto dal “Quartetto per il dialogo nazionale tunisino”, costituito da quattro organizzazioni molto importanti che negli ultimi anni hanno collaborato come mediatori per la democratizzazione della Tunisia). La situazione economica però non è affatto migliorata. Il 15 per cento della popolazione è disoccupata, una percentuale che arriva ad oltre il 30 per i più giovani. Circa 700 mila persone in tutta la Tunisia sono ancora senza lavoro.
La situazione è ulteriormente peggiorata a causa degli attacchi terroristici compiuti nel 2015 contro obiettivi turistici: a marzo un attentato al museo del Bardo, a Tunisi, provocò la morte di 24 persone e a giugno 39 persone rimasero uccise in un attentato a un resort di Susa, sul Golfo di Hammamet (non sono stati gli unici attacchi nel paese, comunque: per esempio il 25 novembre lo Stato Islamico ha compiuto un attacco contro le guardie presidenziali a Tunisi). L’industria turistica, che dà lavoro a quasi 400 mila tunisini, è stata pesantemente colpita e decine di hotel si sono visti cancellare le prenotazioni e sono stati costretti a chiudere in anticipo rispetto al termine della stagione turistica.
Il presidente tunisino, Beji Caid Essebsi, ha detto in un discorso televisivo di “capire” le ragioni dei manifestanti e che le proteste sono naturali: «Non c’è dignità senza lavoro. Non si può chiedere di essere paziente a qualcuno che non ha nulla da mangiare». Il primo ministro Habid Essid ha annullato una visita al forum di Davos, in Svizzera, ed è rimasto a Tunisi, dove dovrebbe incontrare presto una delegazione di manifestanti. Il governo ha anche avvertito del rischio che la protesta venga strumentalizzata dallo Stato Islamico. La Tunisia è uno dei paesi da dove è partito il più alto numero di combattenti per abitante diretto in Siria ed Iraq. Gli esperti ritengono che lo Stato Islamico e altre organizzazioni estremiste abbiano creato una struttura nelle aree rurali e più povere della Tunisia. Questi gruppi di estremisti sono ritenuti responsabili degli attacchi di quest’estate ed è probabile che abbiano ricevuto armi e addestramento nella vicina Libia.