Come funziona la propaganda dell’ISIS
Da quali siti passa e quali servizi usa la sofisticata "divisione media" dello Stato Islamico, responsabile tra le altre cose del reclutamento dei jihadisti stranieri
Due settimane fa l’amministrazione di Barack Obama ha annunciato un ripensamento del suo piano per combattere la propaganda online dello Stato Islamico e di altri gruppi terroristici. La decisione era diventata necessaria dopo il fallimento dei precedenti sforzi, che oltre a essere stati presi in giro online dagli esperti avevano anche prodotto risultati pressoché nulli. Il nuovo piano stabilisce la creazione di una task force anti-terrorismo nel dipartimento della Sicurezza Nazionale statunitense, che dovrebbe coinvolgere decine di altre agenzie federali e locali. Il governo americano ha anche deciso di rilanciare – con qualche modifica – il precedente piano attuato dal dipartimento di Stato, finora piuttosto deludente.
Nonostante il nuovo piano sia stato presentato a diverse società di tecnologia della Silicon Valley – tra cui Apple, Facebook e Twitter, nel tentativo di convincerle ad adottare politiche più decise contro la propaganda online dello Stato Islamico – molti esperti si sono detti dubbiosi sulla sua efficacia. Si tratta comunque di un tema complicato da affrontare: lo Stato Islamico ha messo in piedi una “macchina della propaganda” molto articolata, diffusa nei territori dove il gruppo è presente con una struttura rigida e centralizzata. Diversi esperti hanno provato di recente a capire come funziona – chi fa i video, come vengono diffusi, in che modo vengono rivendicati gli attentati, tra le altre cose – per cercare di bloccarla e limitare il flusso dei molti “foreign fighters” che da due anni si uniscono allo Stato Islamico dopo essersi convinti con il materiale di propaganda trovato online.
Cos’è la macchina di propaganda dello Stato Islamico
La scorsa estate Charlie Winter, un analista che si occupa di Stato Islamico, ha spiegato in un documento pubblicato dal think tank Quilliam Group il funzionamento della propaganda del gruppo.
Winter ha monitorato per un mese le attività online dello Stato Islamico e ha individuato 1.146 foto, video e messaggi audio diffusi in Internet da 36 uffici media che rispondono tutti alla sede centrale della divisione, che si trova a Raqqa, in Siria: tra questi c’era del materiale diffuso anche dagli affiliati dello Stato Islamico in Libia, Afghanistan e Africa Occidentale. Winter ha sottolineato l’alto livello di coordinamento dei vari uffici: per esempio da un giorno all’altro tutti i video diffusi online dallo Stato Islamico avevano un nuovo logo, appena prodotto dalla sede centrale della divisione media.
Winter ha realizzato anche uno schema molto utile per capire quali sono e che tipo di gerarchia c’è tra le varie divisioni e i vari uffici distaccati che si occupano di propaganda (ingrandito in questo PDF a pagina 16, oppure nel tweet qui sotto). Secondo l’intelligence statunitense, a capo della divisione media dello Stato Islamico c’è Abu Muhammad al-Adnani, il principale portavoce del Califfato. Come si vede dallo schema, gli organi centrali di propaganda sono al Furqan, al I’tisam e Ajnad Foundations e al Hayat Media Center. Lo Stato Islamico ha anche una stazione radio (al Bayan) e una casa editrice (al Himma Library) e produce un mensile in lingua inglese, Dabiq.
Great work by @charliewinter for @QuilliamF:
'Documenting #ISIS’ Virtual Caliphate’
http://t.co/w7OcCxYdSf pic.twitter.com/v2rYP0WBph— Charles Lister (@Charles_Lister) October 8, 2015
Le rivendicazioni degli attentati, per esempio, vengono considerate credibili dai media occidentali quando vengono diffuse da uno di questi organi. Dei casi particolari si sono verificati per l’attentato a San Bernardino, in California, e per quello a Giacarta, in Indonesia. Gli attentati sono stati rivendicati inizialmente da Amaq, una specie di agenzia di news “non ufficiale” dello Stato Islamico.
La storia di Amaq è molto interessante ed è stata raccontata da Rukmini Callimachi del New York Times: in pratica Amaq – il cui nome secondo SITE è emerso per la prima volta durante la battaglia per il controllo della città siriana di Kobane – si comporta come un’agenzia di news i cui “giornalisti” sono ben informati dei fatti riguardanti lo Stato Islamico ma non sono formalmente parte integrante della divisione media dello Stato Islamico. In realtà, scrive Callimachi, Amaq si comporta come un’agenzia di news di uno stato totalitario: da diverso tempo ha cominciato a essere considerata una specie di ufficio stampa dello Stato Islamico. Le rivendicazioni di Amaq, che per l’appunto non sono “ufficiali”, potrebbero essere uno dei motivi per cui ogni tanto i siti di news italiani danno la notizia della rivendicazione prima che l’abbia fatto un organo ufficiale dello Stato Islamico e il resto della stampa mondiale.
Twitter, Telegram e il resto
Due delle reti più usate dallo Stato Islamico per diffondere il proprio materiale di propaganda sono il social network Twitter e Telegram, un servizio di messaggistica istantanea fondato in Russia da Nikolai e Pavel Durov, i fondatori del social network russo VKontakte (Telegram funziona in maniera simile a WhatsApp, per capirci, ma con diverse funzioni in più a tutela della privacy degli utenti).
In questo senso le attività di propaganda dello Stato Islamico sono cambiate molto rispetto al passato, quando i gruppi jihadisti tendevano a usare di più i forum in lingua araba e a cui era possibile accedere solo con una password. Nel corso degli ultimi due anni piattaforme come YouTube e Facebook sono riuscite a limitare molto la propaganda dello Stato islamico: per altre piattaforme, tra cui Twitter, non è stato lo stesso. Winter ha spiegato che non si tratta solo di bloccare gli account principali di propaganda, soluzione che peraltro è stata adottata da diverso tempo: finora Twitter non ha né sospeso né bloccato gli hashtag a cui si può risalire tramite la normale funziona “cerca” del social network, permettendo a chiunque abbia parecchia pazienza di risalire a tutto il materiale su quell’argomento messo online dallo Stato Islamico. In pratica lo Stato Islamico ha cominciato a diffondere la propaganda su molti account Twitter in maniera “decentrata e diffusa”: questi account solitamente non hanno migliaia di follower e sono più difficili da rintracciare, ma grazie al particolare uso degli hashtag riescono ad essere comunque molto efficaci.
J.M. Berger, altro esperto di propaganda dello Stato Islamico, ha aggiunto che questo sistema permette a un utente Twitter di avere accesso a moltissimo materiale online nonostante non segua account particolarmente popolari riconducibili ufficialmente allo Stato Islamico. Molti di questi messaggi vengono poi twittati con contenuti multimediali – il risultato del lavoro della divisione media del gruppo – e con l’hashtag “urgente”, per rafforzare la retorica del messaggio apocalittico che lo Stato Islamico cerca di trasmettere in buona parte della sua propaganda.
Negli ultimi mesi molte delle attività del gruppo si sono trasferite però su Telegram, un’applicazione considerata molto “sicura” che permette alla divisione media di diffondere i suoi messaggi a un numero illimitato di membri tramite il suo canale. Telegram permette di utilizzare anche un sistema simile a quello di Snapchat, che prevede la cancellazione del messaggio una volta inviato e arrivato al destinatario (dopo gli attentati di Parigi, comunque, anche Telegram ha cominciato a prendere misure per limitare le attività dei canali legati allo Stato Islamico). Finora lo Stato Islamico è sempre riuscito a cambiare piattaforma nel momento in cui l’uso di quella precedente veniva limitato da nuove politiche restrittive. Tempo fa su Twitter circolava uno schemino che indicava quali sono i sistemi che lo Stato Islamico considera più sicuri per comunicare online.
Islamic State eludes Southeast Asian authorities with Telegram apphttps://t.co/qe51xOuq9j pic.twitter.com/3nJ9qm2wfy
— The Wall Street Journal (@WSJ) January 19, 2016
La produzione dei video
Una delle inchieste più complete sulla propaganda dello Stato Islamico è stata fatta da Greg Miller e Souad Mekhennet sul Washington Post. L’articolo di Miller e Mekhennet si intitola “Inside the surreal world of the Islamic State’s propaganda machine” (“Dentro il mondo surreale della macchina di propaganda dello Stato Islamico”) ed è particolarmente interessante perché si basa soprattutto sulle testimonianze di membri ed ex membri del gruppo. Una delle parti più interessanti riguarda la produzione di video, il sistema di propaganda più usato dallo Stato Islamico per rivolgersi all’Occidente.
«Le videocamere, i computer e il resto dell’equipaggiamento video arrivano regolarmente dalla Turchia. Il materiale viene consegnato a una divisione [dello Stato Islamico] che si occupa di media e che è dominata dagli stranieri – tra cui c’è almeno un americano, stando alle interviste raccolte – la cui abilità di produzione dei video spesso deriva da precedenti lavori a canali di news o società di tecnologia»
Il Washington Post racconta anche che gli esponenti più importanti di questa divisione media vengono trattati come degli “emiri” di uguale rango alle loro controparti militari. Un ex membro dello Stato Islamico ha detto che il loro stipendio è anche più alto rispetto a quello di chi combatte: hanno macchine migliori e vengono coinvolti direttamente nelle decisioni che riguardano le strategie da usare. Anche l’ammissione di nuove reclute nella divisione media è un processo molto rigoroso e controllato: lo Stato Islamico ha messo in piedi un programma specializzato per insegnare come fare i video, come fare un mix delle immagini girate e che tono di voce usare nei filmati. Alla fine del corso ai nuovi membri viene data una camera Canon, uno smartphone Galaxy e un incarico nel gruppo centrale che si occupa di media nella sede di Raqqa, la città siriana considerata la capitale dello Stato Islamico.
Abu Hajer al Maghribi, ex cameraman dello Stato Islamico oggi in prigione in Marocco, ha raccontato al Washington Post come era una sua giornata lavorativa tipo: l’incarico gli veniva consegnato su un foglio di carta con stampato un logo corrispondente alla bandiera nera dello Stato Islamico (sul foglio era indicato solo il posto dove doveva andare, ma non il tipo di incarico). Spesso al Maghribi si trovava a filmare scene di vita quotidiana nei territori controllati dal gruppo – per esempio le preghiere in moschee – e altre volte veniva mandato a filmare delle uccisioni. In un’occasione Maghribi fu mandato a sud-ovest di Raqqa e qui scoprì di essere solo uno dei dieci cameraman incaricati di filmare l’uccisione di 160 soldati catturati nel 2014. Gli fu detto di posizionarsi in un posto diverso rispetto agli altri cameraman presenti, di modo da avere le stesse scene girate da prospettive diverse. La fase di montaggio – che dalle testimonianze raccolte dal Washington Post sembra essere stata affidata a un americano quasi trentenne – è infatti una delle più importanti nella produzione dei video di propaganda. Non riguarda solo i diversi filmati di uno stesso soggetto, ma anche la scelta delle immagini nelle quali sono “uscite meglio” le frasi pronunciate dai miliziani ripresi, che per lo più sono preparate prima. Questo è uno dei motivi, hanno scritto in passato diversi giornalisti, per cui nei video delle decapitazioni gli ostaggi occidentali sembrano così calmi: probabilmente avevano girato la scena precedente all’uccisione diverse volte.
Come fermare la propaganda dello Stato Islamico?
Non è facile capire quale sia la strategia migliore da usare per limitare la propaganda dello Stato Islamico, anche perché nessun gruppo terroristico era mai stato così abile a sfruttare una sua divisione media per reclutare nuovi miliziani e creare lo stesso senso di urgenza nella guerra contro gli “infedeli” (nel senso apocalittico di cui parla Berger). Dei membri ed ex membri sentiti per l’inchiesta del Washington Post, tutti tranne uno hanno detto di essersi convinti a unirsi allo Stato Islamico dopo avere visto del materiale di propaganda del gruppo. Negli ultimi mesi è stata evidente anche in Europa l’efficacia del sistema di reclutamento messo in piedi dallo Stato Islamico: gli attentatori di Parigi, per esempio, erano tutti cittadini nati e cresciuti in Europa e alcuni di loro erano andati in precedenza in Siria per essere addestrati militarmente.
Secondo Winter, l’attuale strategia adottata dagli Stati Uniti non è efficace perché si basa ancora sull’idea di dover essere una “counter-narrative”, una contro-propaganda, invece che una “alternative-narrative”, ovvero una narrativa alternativa. In altre parole i governi occidentali dovrebbero smettere di cercare un sistema univoco, una sorta di soluzione unica, per limitare l’efficacia della propaganda dello Stato Islamico: dovrebbero capire prima di tutto cosa di quella propaganda ha la capacità di attrarre nuove reclute e sviluppare una narrativa alternativa per ciascuna di quelle cose.