L’invenzione dell’inverno
Fino al Settecento era una stagione cupa e triste, poi è diventata poetica e affascinante: lo scrittore Adam Gopnik spiega nel suo nuovo libro perché
Guanda ha pubblicato il libro L’invenzione dell’inverno, dello scrittore canadese-americano Adam Gopnik, collaboratore del New Yorker dal 1986. Nel libro, tradotto in italiano da Isabella C. Blum, Gopnik parte dai ricordi delle prime nevicate a Montreal della sua adolescenza, che gli lasciavano un sentimento di serenità e di gioia, per analizzare poi com’è cambiato il modo in cui percepiamo comunemente l’inverno: quella che un tempo veniva riconosciuta come una stagione buia, rigida, in cui le persone si ritiravano in se stesse, è diventata a partire dalla fine del Settecento (un periodo che Gopnik fa coincidere con la possibilità, grazie al riscaldamento domestico, di osservare l’inverno dal caldo della propria abitazione) una stagione più dolce, poetica e affascinante. Attraverso esempi che vanno dalla letteratura alla pittura alla musica, Gopnik racconta com’è avvenuto questo cambiamento. Di seguito, la storia delle esplorazioni polari nell’Ottocento e Novecento.
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La storia dell’inverno estremo, dell’inverno eterno, e della ricerca dei poli, cominciò all’inizio dell’Ottocento in fantasie letterarie di sapore paradisiaco o prometeico. Lo scopo reale era quello di creare degli exempla virtutis, modelli di virtù, per impressionare e ispirare gli animi. Chi andava nell’Africa nera non doveva necessariamente raccontare che cosa fosse accaduto (anche se molti lo fecero), visto che a parlarne c’erano cicatrici e tesori. Ma poter raccontare come si stava nell’inverno permanente dell’estremo Nord (o Sud) era la ragione stessa per la quale ci si andava. Ci si metteva in cammino per raccontarlo.
La scrittura, come il pack, ha un suo modo specifico di prendere un proprio corso e di fare a pezzi le nostre migliori intenzioni. I diari delle spedizioni polari di Scott, scoperti da Cherry-Garrard, l’uomo che trovò i resti dell’esploratore e dei suoi uomini, furono riportati in Inghilterra nel pieno della Prima guerra mondiale e pubblicati. La vita di Scott si era a lungo intrecciata con la fantasia di J.M. Barrie, il grande drammaturgo scozzese – e, paradossalmente, autore di fiabe sull’identità e il carattere inglesi – creatore di Peter Pan, essenzialmente un mito dell’epoca di Scott, proprio come La regina delle nevi lo era stato in un periodo precedente. Almeno uno dei biografi di Barrie ha insistito che fu soltanto l’influenza dello scrittore a trasformare Scott da militare inquieto a uomo «in grado di percepire l’importanza dell’esploratore quale custode della visione eroica britannica». Ed è nell’ultima lettera che Scott scrisse dal suo rifugio, indirizzata a Barrie, che viene fissato il suo mito di eroe stoico, di uomo capace di soffrire e di trascendere senza mai soccombere a qualcosa di volgare come la semplice competenza. Barrie, a sua volta, contribuì a lanciare il mito di Scott scrivendo l’introduzione alla prima raccolta dei suoi diari, Scott’s Last Expedition e, come da tempo si vocifera, fu anche tra coloro che parteciparono al meticoloso lavoro editoriale di espurgazione sugli ultimi diari dell’esploratore. (Spesso sono anche circolate voci, probabilmente false, sul fatto che Oates – il quale detestava Scott – ben lungi dal voler «uscire», fosse stato più o meno spinto fuori.) In questo senso, perciò, gli ultimi diari di Scott sono una sorta di continua collaborazione fra la reale esperienza dell’esploratore e l’immaginazione eroica e toccante, un’immaginazione da scolaro, messa in campo da Barrie.
Poco tempo dopo, viene scritto l’altro grande documento finale su questa storia, sulla spedizione polare del 1913, e cioè Il peggior viaggio del mondo di Cherry-Garrard, composto sotto la guida, e io credo forse anche con l’aiuto attivo, del grande amico dell’autore, il drammaturgo e umorista irlandese George Bernard Shaw. Citato a più riprese nel testo, Shaw fornisce l’epigrafe di uno dei capitoli e, se vogliamo, ne ispira l’atteggiamento. E così, proprio come Shelley e Poe assistono alla nascita dell’avventura polare, Barrie e Shaw presenziano alle sue esequie. Nella versione di Barrie, Scott e i suoi uomini sono presentati come un manipolo disperso della tribù di Peter Pan: ragazzini mai cresciuti, giovanissimi che continuano ad avere le virtù essenziali dell’adolescente maschio – cameratismo e coraggio e sprezzo del pericolo – portate all’estremo ultimo e definitivo. Grazie a Barrie, che aveva introdotto gli scritti dell’amico e in precedenza esercitato su di lui la propria influenza, Scott divenne l’ultimo dei bambini perduti.
Cherry-Garrard e Shaw hanno una storia molto diversa da raccontare. Anziché localizzare l’eroismo nell’ultimo viaggio, lo collocano nel ritorno a Londra, quando Cherry-Garrard porta al British Museum l’uovo del pinguino imperatore che gli era costato tanta sofferenza e aspetta pazientemente che un burocrate del museo arrivi, prenda in consegna l’oggetto e gli rilasci una semplice ricevuta per dimostrare che è stato ammesso nella collezione. Ed è proprio questo, il pezzo di carta, lo scontrino del burocrate, che diventa il sigillo non tanto del successo della spedizione, quanto della sua esistenza, del fatto che il viaggio aveva portato a qualcosa. Alla fine, la ricevuta arriva, troppo tardi però perché possa offrire un qualche conforto. Nessuno apporrà un timbro sul passaporto dell’uovo di pinguino.
Così l’ironia più profonda di Shaw, che Cherry-Garrard comprende e rappresenta, è che nel nuovo mondo delle guerre e delle carneficine di massa, tutto quel viaggio ardimentoso era stato senza uno scopo. Contro la forza schiacciante dello stato moderno, il piccolo fiammifero del coraggio individuale è privo di senso. Non ha senso essere Peter Pan in un mondo in cui trovano spazio le mitragliatrici e il Fronte Occidentale. Scott aveva cercato una «buona morte», ma in un mondo in cui tutti muoiono, non c’è nessuna buona morte. La cupa ironia di Shaw sta nel fatto che in realtà il viaggio non finisce con la scoperta del luogo in cui Scott riposa, ma con la saga dell’uovo di pinguino. Questo – il viaggio dell’uomo eroico che va a incontrare il funzionario indifferente – è in realtà il viaggio peggiore del mondo. Proprio come le parole di Shelley e Poe anticipano le avventure dell’Ottocento, il climax dell’uovo di Cherry-Garrard anticipa le tragedie kafkiane del Novecento: la ricerca, destinata al fallimento, del timbro sul visto che, nei decenni a venire, avrebbe tragicamente forgiato la parabola dell’esistenza di moltissimi esseri umani.
E così abbiamo due modi letterari, entrambi altamente consapevoli di sé e artificiosi, di interpretare la storia: come l’ultima rigogliosa espressione dell’autentico ardimento vittoriano e edoardiano, e come dimostrazione finale della natura falsa e ipocrita della civiltà che aveva inviato quegli uomini al Sud. L’altro volto dell’ardimento è l’assurdità; l’altro volto del coraggio è quell’estremo compiacimento che sospende l’esercizio dell’immaginazione abbastanza a lungo da consentire quello del coraggio. È un’ambiguità talmente profonda che la percepiamo anche oggi. Dobbiamo ravvisare nella spedizione di Scott, e nella sua straordinaria esibizione di coraggio e incompetenza, una premonizione di quanto sarebbe accaduto alla Gran Bretagna nella Prima guerra mondiale, quando innumerevoli vite sarebbero state sacrificate senza ragione alcuna? Oppure dovremmo riconoscervi una premonizione diversa, quella della Gran Bretagna nella Seconda guerra mondiale, quando uomini e donne avrebbero resistito a dispetto di ogni previsione, con la semplice forza di volontà, con il cuore e con lo spirito della disperazione, proprio come avevano cercato di fare Scott e i suoi uomini? Fu l’atto di audacia che contraddistinse la Resistenza dell’Inghilterra, o l’atto di avventata autodistruzione, atteggiata a dilettantismo, che segnò il primo conflitto? Naturalmente si trattò di entrambe le cose allo stesso tempo, ed è per questo che quando ricordiamo quei viaggi li troviamo al tempo stesso esasperanti e ammirevoli, permeati di un’inettitudine che fa impazzire e d’un coraggio che ancora risplende.
© 2011 Adam Gopnik and Canadian Broadcasting Corporation
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Gruppo editoriale Mauri Spagnol