Otto grandi canzoni di Wilson Pickett
Da riascoltare oggi, a 10 anni dalla sua morte: ne conoscete almeno tre
Wilson Pickett è stato un grande cantante R&B e blues americano: era nato nel 1941 ed è morto il 19 gennaio 2006, dieci anni fa. Oltre alla fama negli Stati Uniti e nel mondo, ebbe anche una brevissima carriera italiana: partecipò due volte al Festival di Sanremo, nel 1968 con una canzone di Fausto Leali e nel 1969 con “Un’avventura” di Lucio Battisti. In occasione dell’anniversario della sua morte potete riascoltare le otto canzoni che Luca Sofri, peraltro direttore del Post, aveva scelto per il suo libro Playlist. Ne conoscete almeno tre.
Wilson Pickett
(1941, Pratville, Alabama – 2006, Reston,Virginia)
Non fosse arrivato Otis Redding a soffiargli il posto, il numero uno del soul sarebbe stato lui. Anche lui frequentò la Stax, leggendaria casa discografica di Memphis, e si mise poi a scriverle, le canzoni, e non solo a cantarle. Si ritirò abbastanza presto, e passò il tempo a farsi arrestare per possesso d’armi, guida in stato di ubriachezza, e cose del genere.
In the midnight hour
(In the midnight hour, 1965)
Il primo successo di Pickett, e rimase il più celebre. Fu registrato a Memphis con tutto il suo storico attacco di fiati. Lui aspetta la mezzanotte, così finalmente sarà solo con lei.
Land of 1000 dances
(The exciting Wilson Pickett, 1966)
“One, two, three… One, two, three”. I fiati, tra un verso e l’altro, sembrano la musica di Batman, poi arriva il celebre “nàaa nanananàaaa”, che è il modo con cui la canzone è più nota: il titolo non lo sa mai nessuno, anche per via del numero. Patti Smith ne cantò un pezzo in “Land”.
Sunny
(The wicked Pickett, 1966)
“Sunny” è straordinaria nella vecchia versione di Bobby Hebb, una delle più belle canzoni inglesi degli anni Sessanta. Come la canta Wilson Pickett diventa più sofferta, e naturalmente più soul. “Sunny, yesterday my life was filled with rain”.
I’m in love
(I’m in love, 1968)
Il più bel pezzo di Pickett di sempre è un lento, scritto da Bobby Womack. Lui è così innamorato che si sente come un bambino il mattino di Natale, e i suoi amici credono sia diventato scemo (questa degli amici che ogni volta che ti innamori non ti capiscono più è un classico della letteratura canora: ma che amici sono?).
Bring it on home to me
(I’m in love, 1968)
Era di Sam Cooke. “If you ever change your mind about leaving me behind, bring it to me, bring your sweet loving, bring it on home to me…”
Se cambiassi idea, mi trovi qui. Di solito non funziona. Lei sorride maternamente, ti bacia sulla guancia, e chiude bene la valigia.
You keep me hangin’ on
(1969)
Un pezzo con cui le Supremes fecero sfracelli a modo loro, diventò drammatico e disperato nella versione di Wilson Pickett, che chiede di mettere fine a questa sofferenza. Mentre l’eccitazione delle prime convinceva che tanto se la sarebbero cavata comunque, Pickett è evidentemente ridotto uno straccio.
Sugar sugar
(1970)
Era una canzonetta da ragazzini portata al successo da una band immaginaria, gli Archies, composta in realtà da anonimi professionisti della sala d’incisione. Pickett la rimise un po’ in riga.
Don’t knock my love pt.1
(Heavy soul, 1971)
Cambio! Altro ritmo, ci buttiamo sul funk e su un andamento più robusto e tirato. L’attacco trascinante del refrain sarà un modello per molte altre cose che verranno poi, fino a diventare un ingrediente tipico della discomusic.