È il momento di Ted Cruz?
Un senatore del Texas molto radicale sta guadagnando consensi dentro e fuori il Partito Repubblicano, e al momento sembra l'unico che possa fermare Trump alle primarie
Nelle ultime settimane sta guadagnando solidità la candidatura alle primarie Repubblicane per la presidenza degli Stati Uniti di Ted Cruz, senatore del Texas. Le primarie inizieranno l’1 febbraio e andranno avanti fino a giugno, sebbene storicamente tra marzo e aprile si possa individuare con pochi dubbi chi sarà il vincitore. Cruz ha 45 anni, è figlio di immigrati cubani nazionalizzati americani e finora era noto per le sue idee molto di destra su praticamente qualsiasi tema. I sondaggi nazionali – per quel che valgono: le primarie si fanno stato per stato – lo indicano come l’unico candidato che sta riuscendo a tenere botta a Donald Trump, mentre un recente articolo del New York Times racconta di come stia lentamente riuscendo a trovare consensi all’interno del proprio partito, i cui funzionari sono di solito più moderati e “realisti” della base. Soprattutto Cruz è messo molto bene nei sondaggi sull’Iowa, lo stato che voterà per primo.
La media dei sondaggi nazionali sui candidati repubblicani, negli ultimi tre mesi
L’ascesa di Cruz ha sorpreso qualche osservatore: nell’affollato gruppo di candidati Repubblicani, Cruz è uno dei più radicali e populisti, e in molti fino a poco tempo fa pensavano potesse ottenere un consenso limitato quasi solo all’ala estrema del partito (per giunta contendendo a Donald Trump il suo stesso elettorato). Chris Cillizza, esperto giornalista politico del Washington Post, prima che Cruz presentasse la sua candidatura aveva sottolineato la capacità di Cruz di mantenere «sempre, su qualsiasi tema, la posizione più conservatrice possibile», ma allo stesso tempo però aveva messo in guardia sulle sue formidabili abilità oratorie, spiegando che la sua candidatura aveva le potenzialità per non essere velleitaria.
La previsione di Cillizza sembra essersi avverata, almeno per il momento: Cruz ha fatto finora una campagna senza grossi inciampi, è andato bene in tutti i dibattiti televisivi e nel corso dell’ultimo, andato in onda giovedì 14 gennaio, ha iniziato a fare una cosa finora praticata solo dai candidati moderati o più istituzionali: ha attaccato duramente Donald Trump, con cui pure nelle scorse settimane si era scambiato lodi e incoraggiamenti (ognuno avrebbe beneficiato di un eventuale crollo dell’altro, e quindi non volevano inimicarsi i rispettivi elettori). Come ha spiegato Francesco Costa nel suo racconto dell’ultimo dibattito, il motivo è relativamente semplice: «i sondaggi dicono che in Iowa, il primo stato in cui si vota, Trump e Cruz sono nettamente i candidati più forti, e che competono per gli stessi elettori», e di conseguenza Cruz per vincere in Iowa e guadagnare ulteriore spinta si è trovato costretto ad attaccare Trump. Che Cruz potesse arrivare a questo punto così in alto, però, non era previsto da molti: come ci siamo arrivati?
Una media dei sondaggi in Iowa negli ultimi tre mesi: ad oggi Cruz e Trump sono praticamente attaccati
Cruz è in politica da una vita: nel 1996, a 26 anni, divenne assistente del capo della Corte Suprema. Tre anni dopo ha fornito consulenza a George W. Bush nella sua campagna elettorale per la presidenza, e dopo la sua elezione ha lavorato ad alto livello nell’ufficio del procuratore generale. Dal 2003 al 2008 ha lavorato come solicitor general del Texas – una specie di “super-avvocato” che rappresenta gli interessi statali, a volte anche davanti alla Corte Suprema – e meno di cinque anni dopo è stato eletto al Senato nello stesso stato.
Le sue posizioni politiche sono sempre state piuttosto radicali: si oppone duramente ai matrimoni gay, alla possibilità di abortire per le donne, a qualsiasi forma di controllo delle armi, alla riforma sanitaria approvata da Obama, a qualsiasi ipotesi di tasse sui ricchi, al rilassamento delle norme sull’immigrazione e alla legalizzazione della marijuana, tra le altre cose. Uno dei suoi bersagli preferiti è il cosiddetto “establishment” politico, cioè quelli che stanno a Washington – Repubblicani compresi – e che secondo gli ultra-conservatori per questa ragione si sono “rammolliti” diventando parte del problema. Una sintesi efficace del suo pensiero l’ha spiegata a Jeffrey Toobin del New Yorker, che nell’estate del 2014 ha scritto per il magazine un lungo profilo di Cruz. Secondo Cruz in questi anni i Repubblicani hanno badato soprattutto ad ammorbidire le proprie posizioni, nel tentativo di rincorrere un elettorato che secondo molti si stava spostando a sinistra per esempio su questioni sociali e sanitarie come unioni civili e possibilità di abortire. Cruz, invece, la pensa in maniera opposta:
«È pazzesco che la vulgata comune fra i Repubblicani sia sempre, sempre, sempre, abbandonare i propri principi e pensarla come i Democratici. Questo concetto esiste da quando sono in giro: “voi matti Repubblicani dovete smettere di pensare in quello che credete e diventare più simili ai Democratici”. Eppure, secondo me, ogni volta che noi Repubblicani facciamo così, perdiamo».
Ted Cruz mangia del bacon fritto su un fucile da cui ha appena sparato
A differenza di altri candidati dalle posizioni radicali e intransigenti, però, Cruz unisce anche una incredibile capacità oratoria e teatrale – spesso nemmeno troppo banale – unita a una grande competenza ottenuta dalla sua lunga carriera politica. Negli ultimi mesi di campagna elettorale lo ha dimostrato più volte: ad agosto ha discusso animatamente con l’attrice Ellen Page sui diritti degli omosessuali, cavandosela molto bene. A novembre, durante un comizio a Charleston, in South Carolina, ha recitato un’intera e classica scena dei Simpson – con cui dice di essere cresciuto – lasciando impressionati molti dei presenti.
A volte la sua sfrontatezza retorica lo fa inciampare: quando nell’ultimo dibattito ha accusato Donald Trump di condividere «i valori di New York» – cioè fondamentalmente valori di sinistra sui temi sociali – ha ricevuto da Trump un’efficace risposta indignata e decine di articoli che lo prendono in giro (in questi giorni Trump sta contrattaccando accusando Cruz di non poter fare il presidente perché nato in Canada ma senza grande fondamento: la Costituzione prevede che si possa candidare chi è americano dalla nascita, e Cruz lo è in quanto figlio di americani).
L’atteggiamento ostile di Cruz contro tutti i politici di Washington, unito al suo carattere particolarmente spigoloso, negli anni lo hanno reso inviso anche alla classe dirigente dei Repubblicani, tanto da fargli guadagnare la fama di “uomo più detestato di Washington”. Nelle ultime settimane però sempre più politici e finanziatori Repubblicani stanno ammorbidendo le loro posizioni, convinti che Cruz sia ormai l’unico che possa fermare Trump e che vista l’insofferenza dell’elettorato sia meglio puntare su qualcuno che riesca a portare alle urne la base del partito, piuttosto che su un candidato più moderato e centrista come Mitt Romney (e magari finisca per trovarsi in qualche difficoltà come Hillary Clinton contro Bernie Sanders tra i Democratici).
Il New York Times, che ha intervistato vari finanziatori e funzionari del partito che in passato sono stati vicini a candidati più moderati, fa l’esempio di Andrew Putzer, un ricco finanziatore che nel 2012 ha appoggiato la campagna di Mitt Romney e che nei mesi scorsi ha avuto contatti con Jeb Bush e Marco Rubio. Putzer ha detto al New York Times di «stare considerando molto seriamente» di appoggiare Cruz, dato le sue capacità di attirare la base del partito. Secondo Putzer una delle ragioni della sconfitta di Romney è stata che «la base non si presentò ai seggi: e Cruz sa che questo deve succedere perché si vinca». Carla Sands, una filantropa che negli anni ha donato centinaia di migliaia di dollari a candidati “moderati”, ha spiegato al Times che «la prossima sarà una elezione delle “basi”: abbiamo bisogno di un candidato che ispiri ed ecciti la base, e che li spinga a venire a votare».
Non è ancora chiaro, ovviamente, quali siano le reali possibilità di Cruz di vincere a novembre; oltre a Trump, un altro dei candidati principali è Marco Rubio, senatore della Florida, che è un po’ più ragionevole di Cruz, ha posizioni più morbide sull’immigrazione e in generale è considerato più gradito all’establishment e meglio attrezzato nell’attirare i consensi degli elettori che non si identificano come Repubblicani. Il problema di Rubio – e anche degli altri candidati moderati, come l’ex governatore della Florida Jeb Bush, il governatore del New Jersey Chris Christie e il governatore dell’Ohio John Kasich – è che alle primarie votano soprattutto gli elettori Repubblicani più determinati, convinti e arrabbiati, e negli anni dell’amministrazione Obama la base del Partito Repubblicano si è molto spostata a destra: per questo motivo stanno avendo successo candidati come Trump e Cruz, che dieci o vent’anni fa difficilmente sarebbero stati messi così bene a questo punto della campagna elettorale.