Quanto può scendere ancora il prezzo del petrolio?
Per la prima volta da 13 anni il costo di un barile è sceso sotto i 30 dollari e potrebbe arrivare a 20 (e secondo alcuni non è un male)
Aggiornamento del 18 gennaio: Il prezzo del petrolio ha raggiunto un nuovo minimo a 28 dollari al barile, il prezzo più basso dal 2003. L’ulteriore discesa del prezzo è causata dall’annullamento da parte degli Stati Uniti di alcune sanzioni che proibivano all’Iran di esportare più di circa un milioni di barili al giorno: in seguito all’annullamento delle sanzioni l’Iran ha ordinato un aumento della produzione di 500mila barili al giorno.
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“Venti dollari sono i nuovi quaranta”, ha titolato in un articolo di questa settimana l’Economist, facendo del sarcasmo sul fatto che questa settimana il petrolio è sceso sotto i 30 dollari al barile per la prima volta da 13 anni a questa parte. Il prezzo del petrolio è in continuo calo dalla fine del 2014 e fino a qualche tempo fa gli economisti stimavano che il mondo avrebbe dovuto abituarsi a un prezzo del petrolio stabilmente intorno ai 40 dollari al barile. Ora quella stima è stata considerevolmente rivista a 20 dollari anche dalla banca di investimento Morgan Stanley e diversi esperti non lo considerano necessariamente un male.
La ragioni di questo calo sono abbastanza note e le opinioni degli esperti non sono cambiate molto rispetto all’anno scorso. Il problema riguarda sostanzialmente la domanda e offerta del petrolio: dal lato dell’offerta, il boom del cosiddetto “petrolio di scisto” degli Stati Uniti – cioè quello ricavato dalle immense miniere americane di scisto bituminoso – ha aumentato considerevolmente la quantità di petrolio in circolazione. Dal lato della domanda, la frenata dell’economia cinese e di molte altre economie in via di sviluppo ha diminuito la richiesta di materie prime energetiche. Anche la ripresa molto timida dell’Europa ha influito negativamente: le economie sviluppate fra l’altro utilizzano i carburante fossili in maniera sempre più efficiente, indebolendo così ulteriormente la domanda.
Gli stessi paesi produttori di petrolio, inoltre, sono stati costretti a compiere tagli severi ai loro bilanci, e una delle prime voci ad essere ridotte sono stati propri i sussidi alla popolazione per l’acquisto di carburante. In una sorta di circolo vizioso, quindi, il calo nel prezzo del petrolio costringe i paesi che lo producono a tagliare i sussidi locali che a loro volta diminuiscono la domanda, producendo ulteriori cali.
In passato quando si verificavano situazione simili i paesi dell’OPEC, un’organizzazione che raccoglie diversi paesi che producono in tutto circa un terzo del petrolio mondiale ma di cui non fanno parte gli Stati Uniti, diminuivano la loro produzione in modo da alzare i prezzi. A questo giro però non ci sono stati tagli di produzione. L’Arabia Saudita, che di fatto controlla l’OPEC, ha deciso di mantenere la produzione stabile per una serie di ragioni strategiche, tra cui cercare di espellere dal mercato i produttori di shale-oil americani. Questo tipo di petrolio, infatti è molto costoso da estrarre e quando il prezzo scende sotto una certa soglia, non è più conveniente da produrre. Diverse società che si occupano di shale-oil sono già oggi in grosse difficoltà nonostante la sua costante diffusione, e per il 2016 in molte potrebbero essere costrette a chiudere. Nel suo complesso però l’industria dello shale-oil si è mostrata molto più resistente di quanto previsto: tagliando sui costi e rendendo la produzione sempre più efficiente, diverse società sono riuscite a rimanere a galla, nella speranza che i prezzi tornino presto a salire. Di conseguenza, anche il problema dell’abbondanza di offerta non è destinato a risolversi a breve.
Probabilmente ci sono anche altre ragioni che tengono i prezzi così bassi. Ad esempio il fatto che molti investitori sono convinti che i prezzi continueranno a scendere e quindi “scommettono” su un’ulteriore calo di fatto contribuendo ad alimentare pessimismo attorno al petrolio, realizzando un classico caso di profezia che si auto-avvera. Secondo alcuni esperti citati dall’Economist, il petrolio potrebbe scendere fino a 10 dollari al barile prima che questi investitori decidano di tornare a scommettere – cioè far girare la voce che un aumento di prezzi sia imminente – su un effettivo aumento dei prezzi.
Anche se è possibile che investitori e speculazione abbiano un ruolo nel calo di questi giorni, le ragioni fondamentali restano legate al meccanismo della domanda e offerta, e soprattutto quest’ultima. L’evento più temuto dai produttori di petrolio in questi giorni è la fine delle sanzioni all’Iran. Dal 2006, il paese ha avuto grosse difficoltà a esportare petrolio a causa delle sanzioni imposte in risposta all’inizio di un programma nucleare. Con l’accordo sul nucleare firmato lo scorso luglio, le sanzioni dovrebbero essere eliminate proprio in questi giorni ed il mercato del petrolio assisterà così al ritorno dell’Iran, un paese in grado di produrre 500mila barili al giorno.
Secondo il Financial Times, il calo del prezzo del petrolio è comunque una buona notizia per gran parte del mondo. Alcuni lo pagheranno caro, come i paesi produttori di petrolio e le banche che hanno prestato denaro al settore energetico: ma il fatto che uno dei carburanti più utilizzati al mondo sia diventato così economico dovrebbe permettere al resto del mondo di risparmiare abbastanza denaro da ripianare queste perdite e generare un surplus di crescita. Certo, scrive il Financial Times, quando una materia prima così importante e preziosa come il petrolio subisce cambiamenti di prezzo così repentini possono essere collegati dei rischi, ma nel complesso sono più le ragioni per essere ottimisti che quelle restare pessimisti.