L’omicidio di Lidia Macchi, dall’inizio
Un ragazza fu uccisa in provincia di Varese 28 anni fa, ma il caso non è mai stato risolto: da ieri se ne riparla perché c'è un nuovo sospettato
Sulle prime pagine dei giornali italiani di oggi si riparla del caso di omicidio di Lidia Macchi, una ragazza di 21 anni uccisa in maniera brutale il 7 gennaio 1987 a Cittiglio, in provincia di Varese, secondo l’accusa dopo essere stata violentata. Il responsabile dell’omicidio non è mai stato trovato: nell’estate del 2015 l’uomo che secondo l’accusa era il principale sospettato, un ex imbianchino di Cittiglio, è stato scagionato da tutte le accuse. Venerdì 15 gennaio il caso ha avuto una svolta: la Procura di Milano ha fatto arrestare Stefano Binda, un ex compagno di scuola di Macchi, accusandolo dell’omicidio. La prova principale contro Binda è una lettera anonima arrivata alla polizia pochi giorni dopo l’omicidio. La lettera conteneva diversi inquietanti riferimenti impliciti all’omicidio di Macchi, e solo di recente è stata attribuita a Binda da una perizia calligrafica. Binda ha 49 anni e finora non era mai stato coinvolto nell’inchiesta.
Del caso Macchi all’epoca si parlò moltissimo: sia perché la storia era molto appetibile per i giornali – Macchi frequentava il movimento cristiano di Comunione e Liberazione, di cui allora non si sapeva ancora moltissimo – sia perché fu il primo caso in Italia in cui venne impiegata l’analisi del DNA a scopi investigativi.
Cosa successe
Il 5 gennaio 1987 Macchi, che studiava Giurisprudenza all’università Statale di Milano, era andata a trovare un’amica ricoverata all’ospedale di Cittiglio, in provincia di Varese. Doveva tornare a casa per cena a Casbeno, un quartiere di Varese dove abitava coi suoi genitori, ma non si fece vedere. L’amica ricoverata raccontò che Macchi era uscita dall’ospedale alle otto e dieci. Il padre di Macchi ha raccontato che la sera del 5 gennaio cercò l’automobile di sua figlia nel parcheggio dell’ospedale, ma che non la trovò. Il giorno successivo circa un centinaio fra amici, compagni scout e membri di CL organizzarono una ricerca per trovare Macchi nelle strade fra Varese e Cittiglio. Il corpo di Macchi venne ritrovato il 7 gennaio nel bosco di Sass Pinì: era coperto da cartoni e parzialmente svestito. Più tardi la procura stabilì che Macchi era morta nella notte fra il 5 e il 6 gennaio dopo aver ricevuto 29 coltellate.
Una puntata del programma televisivo Blu Notte che ricostruisce il caso Macchi
Le indagini
Le prime indagini si concentrarono su Antonio Costabile, il sacerdote che coordinava il gruppo scout che frequentava Macchi, che secondo i giornali di allora aveva un alibi fragile e un rapporto molto stretto con la ragazza. Oltre a Costabile, le indagini coinvolsero anche altri tre sacerdoti. Racconta il Corriere della Sera:
I sospetti trovavano forza in due lettere. La prima l’avevano scoperta nella borsa di Lidia, era una lettera d’amore, divenne quasi una prova a carico: «… dimmi perché sorridi, perché il tuo sguardo è così dolce, luminoso e reale, perché sollevi gli occhi al cielo e perché io non posso che arrendermi alla realtà… non so se ci sarà un futuro insieme per noi. Amen». La seconda lettera, anonima e mandata ai Macchi, era un delirio mistico («il corpo offeso, velo di tempio strappato, giace…») forse una confessione, e si chiudeva con un cerchio: un simbolo sacro o addirittura un’ostia, pensarono in tanti. L’inchiesta non andò lontano: su Agostino Abate [pm dell’inchiesta, ndr] si scatenarono attacchi pesanti, il fascicolo gli fu tolto e poi restituito, i sacerdoti furono tutti scagionati da una delle prime prove di DNA mai viste in Italia.
Repubblica racconta che sul corpo di Macchi fu trovato del “materiale organico” che venne confrontato da un laboratorio britannico col sangue dei sacerdoti interrogati, che però non trovò riscontri.
Il caso si è riaperto nel 2013, quando la procura di Milano ha sospettato e poi accusato formalmente dell’omicidio un ex imbianchino del luogo, Giuseppe Piccolomo. Al momento dell’incriminazione Piccolomo si trovava già in carcere: nel 2011 fu infatti condannato all’ergastolo per avere ucciso una pensionata di Cocquio-Trevisago, in provincia di Varese, nel 2009. Le prove a carico di Piccolomo erano sostanzialmente le testimonianze delle sue due figlie – che hanno raccontato che nel gennaio del 1987 il padre si era vantato di avere ucciso Macchi – e di un identikit molto simile a Piccolomo tracciato sulla base della testimonianza di quattro ragazze che in quegli anni avevano raccontato di essere state molestate nel parcheggio dell’ospedale di Cittiglio.
Uno degli identikit circolati all’epoca del molestatore, e una foto di Piccolomo da giovane (ANSA)
Dopo l’arresto, l’avvocato della famiglia Macchi ha richiesto che fossero effettuati dei nuovi esami al DNA per corroborare l’accusa contro Piccolomo. Le tracce di DNA trovate sul corpo di Macchi non risultarono compatibili con quelle di Piccolomo, che è stato scagionato dalle accuse nell’agosto del 2015.
Gli sviluppi recenti
La lettera anonima arrivata alla famiglia Macchi pochi giorni dopo l’omicidio trapelò dai documenti dell’indagine nel giugno del 2014 e venne diffusa da televisioni e giornali. Un’amica di Stefano Binda, un ex compagno di scuola di Macchi, riconobbe la grafia di Binda e ne parlò con la Procura di Milano nell’estate di quell’anno. Nei mesi successivi la Procura fece confrontare la grafia della lettera con quella di Binda, trovando riscontri positivi. Ieri, venerdì 15 gennaio, Binda è stato incriminato ufficialmente per l’omicidio. I giornali raccontano che all’epoca dell’omicidio Binda frequentava lo stesso giro di Comunione e Liberazione di Macchi. Oggi ha 49 anni, è disoccupato e vive a Brebbia, in provincia di Varese.
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Repubblica, che ha pubblicato dei pezzi dell’ordinanza di arresto nei confronti di Binda, scrive che l’accusa ha descritto Binda come una persona con cui Macchi aveva un rapporto molto stretto, “una sorta di infatuazione/attrazione anche reciproca”, e che la sera del 5 gennaio salì in macchina con lei, la stuprò e poi la uccise lasciandola in un bosco vicino. L’accusa, sempre citata da Repubblica, spiega in modo contorto che Binda uccise Macchi per vendicarsi di avere fatto sesso con lui: Binda avrebbe ucciso Macchi «per motivi abietti e futili, consistenti nell’intento distruttivo della donna considerata causa di un rapporto sessuale vissuto come tradimento del proprio ossessivo e delirante credo religioso, tradimento da purificarsi con la morte; intento punitivo pertanto del tutto ingiustificabile e sproporzionato agli occhi della comunità».
Non sembra ci siano molte altre prove a carico di Binda: ANSA ha scritto che dentro a un’agenda trovata a casa di Binda c’era la scritta “Stefano è un barbaro assassino”, e che secondo la procura la grafia del foglio “risulta ascrivibile allo stesso Binda”. Non è chiaro se dopo l’arresto Binda sia già stato interrogato.
La ricostruzione dell’accusa sulla dinamica dell’omicidio di Lidia Macchi. (ANSA / CENTIMETRI)