La mostra che incoraggia a fotografare le opere
È stata inaugurata a Washington ottenendo un grandissimo successo grazie alla condivisione delle foto sui social network, ma c'è chi storce il naso
Il Washington Post ha raccontato la storia e lo straordinario successo della mostra di arte contemporanea “Wonder” organizzata dalla Renwick Gallery (che fa parte del National Museum of American Art di Washington) in occasione della sua riapertura.
Il grande successo si deve in gran parte a un innovativo approccio rispetto alle fotografie scattate dai visitatori alle opere in esposizione. Anziché incontrare un divieto, come succede di solito nei musei, i visitatori sono incoraggiati a fotografare le opere: questo ha generato un circolo virtuoso che ha fatto parlare della mostra più di quanto non sarebbe successo altrimenti.
La mostra della Renwick Gallery è dedicata “allo stupore, la meraviglia e la sorpresa”. Sulle pareti del museo, al posto dei consueti cartelli con la macchina fotografica sbarrata, ci sono piccole targhette che dicono “fotografie ammesse e incoraggiate”. Le opere esposte, inoltre, si prestano molto a fare quel tipo di foto semplici e a effetto che si condividono volentieri su Instagram e gli altri social network: ci sono per esempio un arcobaleno realizzato con sottili fili colorati e tesi, una stanza intera color magenta con alcune composizioni di insetti esotici fissati alle pareti e una riproduzione di stalagmiti realizzate con fogli dell’elenco telefonico. Su Instagram più di 20 mila foto sono state taggate con l’hashtag #RenwickGallery, e alcune sono state caricate da profili famosi e molto seguiti. Parecchie coppie di sposi hanno usato la mostra come sfondo per le foto nuziali. C’è anche chi ha fotografato le piccole targhette che incoraggiano le fotografie.
Nicholas Bell, curatore della mostra, ha detto che non verranno tolte quando verrà smantellata l’esposizione e che la nuova politica di incoraggiare le foto resterà valida anche per le prossime mostre.
Da quando il museo ha riaperto sei settimane fa, dopo due anni di chiusura per lavori di restauro, ha avuto già 176 mila visite: un risultato notevole se confrontato con la media annuale di 150 mila visite registrata nel 2012 e nel 2013, prima della chiusura. L’aumento delle visite è in parte dovuto all’inclinazione social della mostra che ha attirato un pubblico “nuovo”, che prima non frequentava musei di arte contemporanea e si è interessato alla mostra dopo aver visto circolare le foto su internet. Questo aspetto, tuttavia, ha attirato anche alcune critiche, tra cui quella del giornalista del Washington Post Philip Kennicott che ha scritto nella sua recensione – pubblicata subito dopo l’inaugurazione – che «la mostra invita i visitatori a trattarla in maniera superficiale».
La maggior parte dei musei proibisce di fotografare le opere esposte in mostre temporanee in parte per motivi di copyright, e in parte per ragioni di conservazione delle opere più delicate. Inoltre c’è anche da tenere in considerazione l’esperienza dei visitatori: al Louvre di Parigi, per esempio, è difficile vedere davvero La Gioconda di Leonardo da Vinci per via della coda disordinata di persone che si fermano per scattare foto con smartphone e macchine fotografiche. Le critiche di Kennicott, tuttavia, potrebbero avere qualche fondamento. Secondo uno studio condotto nel 2013 dalla professoressa di psicologia della Fairfield University Linda Henkel, le persone che fotografano opere d’arte tendono a ricordarle di meno. Secondo Henkel «già guardare un’opera attraverso lo schermo riduce l’esperienza museale»; per quelli che fotografano solo per mostrare alle altre persone cosa stanno facendo il rischio è che l’effetto si amplifichi e che la foto dell’opera diventi solo un “trofeo”.
Secondo Nicholas Bell, il curatore della mostra, le fotografie non sono un problema per la mostra e per i visitatori: «Ogni visitatore trova la propria connessione con la mostra in maniera differente. Non dovremmo giudicarli». Anche l’artista di una delle opere più fotografate, Gabriel Dawe, ha detto al Washington Post che «nella mostra si è immersi nelle opere e non c’è modo di non esserlo. Non penso che cercare di catturare il momento con uno smartophone rovini l’esperienza».