Israele è spacciato?
Sempre più esperti e commentatori si dicono preoccupati che anni di politiche reazionarie abbiano compromesso il carattere ottimista del paese, e così la sua stessa sopravvivenza
di Luca Misculin – @LMisculin
Se esaminassimo superficialmente una serie di dati su Israele, un piccolo stato mediorientale incastrato fra Siria, Libano, Giordania, Palestina ed Egitto, la situazione apparirebbe chiara. A partire dalla sua fondazione nel 1948 fino all’inizio degli anni Ottanta, Israele è sempre stato in guerra: prima con gli stati arabi vicini, successivamente contro fazioni nemiche che si erano ritirate in territori confinanti.
Dagli anni Ottanta a oggi Israele ha lavorato per la normalizzazione dei rapporti con i paesi vicini – non ha avuto un ruolo rilevante nella cosiddetta “primavera araba” nel vicino Egitto, per esempio, né sostiene una particolare fazione nella guerra civile siriana in corso dal 2011 – ed escludendo l’estate del 2006 ha avuto a che fare “solamente” con nemici interni. La sua stessa esistenza, fino a trent’anni fa messa concretamente in discussione da nemici interni ed esterni, non è più davvero oggetto di dibattito. Israele elegge democraticamente un governo da quasi 70 anni e partecipa attivamente all’interno della comunità internazionale. Quest’anno la sua nazionale di calcio ha sfiorato la qualificazione alla fase finale degli Europei. Dal 1995 a oggi il suo PIL è praticamente triplicato.
Eppure negli ultimi mesi sui giornali israeliani e internazionali sono comparsi diversi articoli dal tono preoccupato e pessimista sullo stato attuale di Israele: Ari Shavit, un rispettato scrittore ed editorialista israeliano, ha spiegato sul quotidiano di sinistra Haaretz che Israele «è entrato negli ultimi dieci anni in cui può salvare se stesso». David Myers, che insegna storia ebraica all’università di Los Angeles, sul magazine Jewish Journal ha preso una storia piccola e locale per chiedersi: «Israele è in grado di salvare se stesso?». Altri ancora suggeriscono che alcuni paesi stiano già provando a salvare Israele dalla prevedibile catastrofe interna a cui sta andando incontro.
Che succede?
A uno sguardo più ravvicinato Israele ha davvero un mucchio di problemi. Secondo diversi osservatori questi problemi si stanno aggravando a causa delle politiche del governo di destra di Benjamin Netanyahu, che pure in apparenza ha un controllo politico molto fragile: si regge su una maggioranza di appena un voto alla Knesset, la camera unica israeliana.
Gli ultimi negoziati con le autorità arabe per la creazione di uno stato palestinese indipendente sono falliti da diversi mesi, un periodo in cui invece è ripreso un nuovo ciclo di attacchi contro civili israeliani da parte di giovani palestinesi. Le colonie israeliane in terra palestinese, ritenute illegali dalla comunità internazionale ma apertamente appoggiate dai governi sionisti di destra, negli ultimi 20 anni si sono espanse enormemente e oggi rappresentano l’ostacolo più ingombrante alle prospettive di convivenza pacifica coi palestinesi. I rapporti politici con gli Stati Uniti e l’Unione Europea, un tempo amichevoli e proficui, si sono complicati: Obama è considerato uno dei presidenti americani contemporanei più freddi nei confronti di Israele, e lo stesso governo israeliano se l’è presa moltissimo quando la Commissione Europea ha deciso che i prodotti fabbricati nelle colonie saranno marcati con un’etichetta specifica (nello sviluppo di un recente litigio, Israele ha negato l’ingresso nel proprio territorio al ministro degli Esteri svedese). L’integrazione degli arabi con cittadinanza israeliana è tuttora molto difficoltosa, e secondo alcuni non è mai avvenuta: diverse ONG internazionali sottolineano da anni la costante privazione di vari diritti umani che Israele compie verso i propri cittadini arabi e nei confronti dei palestinesi.
Israele è sempre stato un paese “speciale”: fin da quando è stato fondato e riconosciuto dalla comunità internazionale, i suoi governi hanno provato a tenere insieme le sue due componenti fondamentali apparentemente molto distanti, cioè la democrazia e la componente etnico-religiosa ebraica. La contraddizione appariva evidente sin dall’inizio: nella dichiarazione di Indipendenza del 15 maggio del 1948, nel giorno della fine del mandato britannico sulla Palestina (una specie di “protettorato” sul territorio che oggi comprende Israele e Palestina assieme, assegnato dalla comunità internazionale alla Gran Bretagna), c’era scritto sia che «sarà ristabilito lo Stato Ebraico in Terra d’Israele [nell’originale ebraico Eretz-Israel, la terra che secondo gli Ebrei è stata donata loro da Dio], aperto a ogni ebreo» sia che «[il nuovo stato] assicurerà completa uguaglianza sociale e politica a tutti i suoi abitanti a prescindere da religione, etnia o sesso; e garantirà libertà religiosa, di coscienza, di opinione, educazione e cultura». Come può la realizzazione di una delle due cose non avvenire a spese dell’altra?
Molti commentatori di sinistra ritengono che negli ultimi anni il governo israeliano abbia esageratamente rafforzato la componente ebraica dello stato, e che secondo il commentatore di Haaretz Uri Misgav alcuni politici israeliani stanno portando il paese «sulla strada per diventare una teocrazia». Quelli di destra accusano la sinistra di esagerare, e in generale lamentano di essere stati abbandonati dalla comunità internazionale. Insomma, Israele è un paese bloccato da un conflitto interminabile, attraversa una crisi politica complicata e ha una popolazione divisa e demoralizzata. Ma non è sempre stato così.
I bei tempi andati
La aliyah, cioè il pellegrinaggio “di ritorno” degli ebrei nella terra che secondo loro gli è stata donata da Dio, è iniziata nel 1882 in seguito ad alcune persecuzioni che gli ebrei stavano subendo in Russia. Da quel periodo fino al 1948 sono state calcolate a spanne sei “ondate” di ritorni di ebrei nell’allora mandato britannico in Palestina, ciascuna composta da persone di varia estrazione e provenienti da paesi diversi: a grandi linee, la prima e la seconda aliyah interessarono gli ebrei che abitavano nell’impero di Russia, la terza e la quarta quelli che arrivavano dall’Europa orientale e la quinta un gran numero di tedeschi, oltre ad altri ebrei provenienti dall’est Europa (eravamo più o meno negli anni dell’Olocausto).
I nuovi arrivati, con varie sfumature, erano animati da ambizioni “sioniste”: cioè dall’intenzione di stabilire uno stato nazionalista ebraico in Palestina, in linea di continuità con lo stato ebraico raccontato nei libri della Bibbia. Molti di loro andarono a vivere in una città – a volte fondata appositamente, come nel caso di Tel Aviv – mentre alcuni formarono apposite comunità collettive di agricoltori nei cosiddetti kibbutz, costruiti su principi egalitari fra gli uomini e le donne che ne facevano parte. Le varie fasi della aliyah sono ricordate oggi con grande nostalgia da molti israeliani, che narrano le storie di decine di migliaia di giovani famiglie o ragazzi che mollavano il proprio paese natale e “tornavano” in Palestina – dove per la gran parte non erano mai stati – per contribuire alla ricostruzione dello stato ebraico, in una terra semi-deserta e difficile da coltivare, e in generale a dare una mano per costruire da zero uno stato para-occidentale.
Un colono-soldato rammenda una rete da pesca a Nahal Yam, 10 maggio 1968 (Moshe Milner/GPO via Getty Images)
Persino la lingua ufficiale del neonato Israele era “una cosa nuova”: per l’occasione gli ebrei presenti in Palestina ripresero a parlare l’ebraico – una lingua che i loro discendenti avevano smesso di parlare prima della nascita di Gesù Cristo – adattandola ai bisogni moderni. Di quegli anni circolano ancora foto di ragazze e ragazzi in maglietta e pantaloncini corti che costruiscono case o raccolgono frutta, tutti piuttosto sorridenti.
Tre ragazze che abitano nel kibbutz di Ein Harod, fondato nel 1921 e attivo ancora oggi, lavorano nella cava del kibbutz, 1 agosto 1941 (Zoltan Kluger/GPO via Getty Images)
Negli stessi anni, però, aumentò l’insofferenza nei confronti degli ebrei da parte degli arabi che in precedenza abitavano la Palestina, e che fino a quel periodo avevano coesistito pacificamente. Secondo diversi esperti il movimento nazionalista sionista si espanse in maniera così rapida ed efficace che causò un contro-movimento nazionalista palestinese: queste tensioni culminarono nella Grande rivolta araba del 1936, in cui nei primi sei mesi morirono circa 89 civili ebrei e 195 arabi. Fu l’inizio di un conflitto intricatissimo e vivo ancora oggi, che negli anni ha generato un’espansione smisurata delle forze armate e di sicurezza israeliane, trattative lunghissime e finora sostanzialmente infruttuose per la nascita di uno stato palestinese, e su tutti migliaia di morti da entrambe le parti.
Coloni israeliani pranzano assieme a dei loro vicini arabi per festeggiare la nascita di un kibbutz nell’attuale Cisgiordania, 13 febbraio 1949 (AP Photo)
Nonostante i primi decenni di vita di Israele furono piuttosto turbolenti, il sionismo non ne soffrì: la popolazione israeliana aumentò costantemente e i governi furono stabilmente in mano ai sionisti di sinistra, ispirati dalle teorie socialiste (e quindi molto vicini e solidali agli abitanti dei kibbutz, per capirci). La stessa idea di Israele, alla stregua dei kibbutz, era considerata una specie di utopia: quella di uno stato molto presente sia nella vita economica – sotto forma di uno stato sociale molto sviluppato – sia in quella politica, con una forte identità ebraica nazionalista. Shavit, su Haaretz, ha spiegato che «gli anni in cui fu primo ministro David Ben-Gurion [il primissimo primo ministro di Israele] furono caratterizzati dalla costruzione di forti e indipendenti istituzioni democratiche e dall’attenzione alla dignità e ai diritti umani. Per trent’anni Israele ha conosciuto una specie di “età dell’oro” di rafforzamento delle istituzioni, libertà di espressione e la nascita di una nazione davvero libera». Ma è vero che nemmeno in quegli anni ci fu nella sinistra israeliana – che governava il paese – una vera spinta per trovare un accordo che risolvesse la questione palestinese in un modo soddisfacente per tutti.
Il primo governo guidato da un partito di destra si insediò in Israele solamente nel 1977, quando la spinta idealistica dei primi abitanti dei kibbutz – e quindi il peso dei partiti socialisti – si andava riducendo a favore di una maggiore attenzione per la sicurezza e la diffusione dell’economia di mercato, temi tradizionalmente cari al Likud, il principale partito di centro-destra di cui fa parte oggi il primo ministro in carica Benjamin Netanyahu.
Le critiche di oggi
In un recente articolo pubblicato sul New York Times, l’editorialista Roger Cohen – che si è spesso occupato di Israele e Medio Oriente – ha scritto che l’attuale crisi israeliana è iniziata in un giorno preciso: il 4 novembre 1995, quando l’allora primo ministro israeliano laburista Yitzhak Rabin – che negli anni precedenti aveva condotto e firmato gli accordi di pace di Oslo – fu ucciso da Yigal Amir, un estremista sionista di 25 anni. Cosa successe dopo, secondo Cohen:
La ragione vacillò. La rabbia prese il sopravvento. I “moderati” diminuirono. Il sionismo messianico, quello secondo cui tutta la terra che sta fra il Mar Mediterraneo e il fiume Giordano è Israele, ha soppiantato il Sionismo “laico”, che crede in uno stato democratico. Un politico opportunista di destra chiamato Benjamin Netanyahu è salito al potere. Un guerriero fautore di pace come Rabin fu sostituito da un piazzista che si serve della propaganda a fini politici. Una leadership, nel senso positivo del termine, non c’è più: senza di essa ogni problema sembra insormontabile; con essa, nessun problema è irrisolvibile.
Dopo gli accordi di Oslo, i passi avanti sono stati molto pochi: secondo alcuni, anzi, la situazione è diventata ancora più intricata. Israele ha intensificato la costruzione di colonie in territorio palestinese e ha costruito un muro per proteggere dagli attentati suicidi i suoi insediamenti nella parte est di Gerusalemme, conquistata durante la Guerra dei Sei Giorni del 1967 ma mai riconosciuti dalla comunità internazionale. Il piano di spartizione di Oslo non è mai stato superato: delle tre zone in cui è stata divisa la Cisgiordania, cioè la parte principale e interna della Palestina, una sola è sotto il pieno controllo dei palestinesi. Le condizioni dei palestinesi, che oggi sono praticamente dei cittadini israeliani di serie B, è rimasta praticamente invariata da anni e oggetto di molte critiche nei confronti di Israele da parte di organizzazioni internazionali e ONG.
Da allora Israele ha dovuto affrontare almeno cinque picchi di violenza nei propri confronti – la più grave delle quali, la Seconda Intifada, ha causato più di mille morti israeliani fra il 2000 e il 2005 – a cui ha sempre risposto con decisione e forza spesso sproporzionata. La compattezza degli israeliani non ha però unito i palestinesi, che ancora oggi sono un popolo senza stato, incattivito da anni di continui soprusi e privazioni di libertà e con una guida politica corrotta e fragilissima: ancora nelle ultime settimane, quando si era diffusa la notizia falsa di una malattia del presidente palestinese Mahmoud Abbas e della possibile dissoluzione dello stato palestinese, lo stesso Abbas si è trovato a dover ripetere che «nessuno dovrebbe sognare il collasso della Palestina». Da ottobre è ricominciato un nuovo ciclo di violenze di palestinesi nei confronti dei civili israeliani: finora sono morti almeno 20 israeliani e 120 palestinesi.
Nel frattempo Netanyahu viene accusato di avere aizzato il conflitto religioso – conservando i sussidi destinati ai coloni, che spesso fanno parte di congregazioni ebraiche estremiste – e di aver continuato a fomentare il conflitto coi palestinesi: poco prima delle ultime elezioni, nel marzo del 2015, ha detto che con lui al governo i palestinesi non avrebbero mai avuto uno stato, al contrario di quanto suggerito dagli accordi di Oslo: dopo aver vinto le elezioni ha ritrattato parzialmente. Nell’ottobre del 2015 ha detto che Hitler fu convinto a mettere in pratica l’Olocausto dal Gran Mufti di Gerusalemme, un importante capo religioso islamico di Palestina: pochi giorni dopo ha ritrattato. L’ultima iniziativa del suo governo – una legge che obbligherebbe le ONG finanziate in maggior parte dall’estero a dichiarare i propri finanziatori e a essere riconoscibili – è stata descritta come «un pericolo per la democrazia israeliana» dal Washington Post. Israele è ancora oggi uno dei pochi paesi dell’Occidente in cui la leva è obbligatoria: dura tre anni per gli uomini e due per le donne.
La frustrazione
ll pantano in cui è finito Israele è riconosciuto da diversi israeliani, che si lamentano della direzione che ha preso il paese, sempre più diviso da un conflitto etnico-religioso e indebolito da un governo accusato di azioni molto decise. Bloomberg di recente ha raccontato una piccola storia locale piuttosto esemplare:
Tali Avraham, una veterinaria che lavora a Tel Aviv, dice che non ce la fa più a vivere in Israele. È cresciuta con la speranza che il conflitto coi palestinesi si sarebbe risolto, e che la società israeliana sarebbe diventata man mano più aperta. Ma oggi ha 42 anni, ha una figlia, e assiste ancora a negoziati fallimentari, privazioni di libertà civili e una società un tempo egalitaria polarizzata fra ricchi e poveri. «Questo non è il posto in cui vorrei crescere mia figlia», spiega Avraham, che parla di trasferirsi in Canada o Nuova Zelanda: «Tutti i valori che mi hanno fatto innamorare di Israele sono sotto attacco da parte di questo governo».
Ari Shavit su Haaretz ha scritto che il peggioramento di Israele sta avvenendo sostanzialmente su tre fronti: quello politico-religioso, dato che i coloni sostenuti dal governo sono quasi quadruplicati negli ultimi 20 anni – passando da 120mila a 400mila – e che di questo passo raddoppieranno entro il 2025; quello dei cuori e delle menti degli israeliani, poiché «sta soffiando un brutto vento, che silenzia le critiche e condanna le opinioni contrarie»; e infine nelle opinioni di chi vive fuori Israele, in Occidente, dove «sempre più persone oneste si stanno chiedendo cosa sia successo a Israele, e se abbia perso il suo valore distintivo. Piuttosto che uno stato amico, siamo percepiti come un ibrido incomprensibile di alta tecnologia, occupazione militare, edonismo e fanatismo».
Secondo alcuni, la sinistra israeliana non si è mai ripresa dal fallimento della socialdemocrazia e dei negoziati di Oslo. Shavit ritiene però che Israele – e la sinistra israeliana, in particolare – abbiano ancora qualche possibilità:
«Se non cambiamo direzione e torniamo a essere un’apprezzata e ammirata democrazia all’avanguardia, entro il 2025 saremo dei veri pariah, e l’Occidente ci volterà le spalle. Quindi abbiamo un decennio, al massimo. Non è troppo tardi. La maggioranza degli israeliani è sana, e il suo elettorato illuminato ha ancora delle carte da giocare. Non è stato il destino a organizzare la presa di potere della destra fanatica. La crisi che circonda l’identità e i valori di Israele e la sua democrazia è il risultato diretto della crisi della sinistra, che non è riuscita a creare una leadership visionaria e positiva. Se continua a frignare, criticare ed essere irrilevante, accadrà il peggio».