L’ultimo discorso di Obama sullo stato dell’Unione
Che cosa ha detto stanotte il presidente degli Stati Uniti agli americani e al Congresso
di Francesco Costa – @francescocosta
Il presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, alle 21 di martedì 12 gennaio – in Italia erano le 3 del 13 gennaio – ha rivolto al Congresso e al paese il suo ultimo discorso sullo stato dell’Unione. Il discorso è un appuntamento annuale della politica statunitense: visto dall’Italia è una cosa a metà tra il discorso di insediamento con cui un presidente del Consiglio chiede la fiducia e il discorso di fine anno del presidente della Repubblica. È stato il settimo e ultimo di Barack Obama; quello che pronunciò nel 2009, subito dopo l’insediamento, non era formalmente un discorso sullo stato dell’Unione – non avrebbe potuto darne conto, dato che era stato appena eletto – bensì un semplice discorso-al-Congresso-in-seduta-plenaria. Il testo del discorso si può leggere qui.
I discorsi sullo stato dell’Unione hanno spesso una struttura tradizionale da lista-della-spesa, con dentro un po’ di tutto: questo non ha fatto eccezione, anche se Obama ha parlato rivolgendosi esplicitamente più al paese che ai parlamentari. Obama ha fatto un riepilogo dei risultati ottenuti dalla sua amministrazione e poi ha chiesto agli americani di continuare il lavoro iniziato in questi anni, con ottimismo e senza farsi guidare dalla paura. È stata una delle ultime occasioni per Obama di rivolgersi alla nazione davanti a un pubblico particolarmente numeroso; forse la penultima prima del discorso che terrà la prossima estate alla convention elettorale dei Democratici.
Obama ha risposto alle quattro domande che – ha detto – i cittadini americani si fanno di più in questo momento storico: come dare opportunità di successo a tutti, come stimolare e gestire proficuamente i cambiamenti tecnologici, come tenere la nazione al sicuro e come aggiustare quello che non funziona nei meccanismi della politica. Nel rispondere a queste domande, Obama ha innanzitutto rivendicato gli enormi passi avanti fatti dal suo primo discorso al Congresso a oggi, ricordando che sono stati creati 14 milioni di nuovi posti di lavoro, che il tasso di disoccupazione è stato dimezzato e che il numero di cittadini americani con un’occupazione aumenta ininterrottamente da 54 mesi. Ha spiegato però che il funzionamento del mercato del lavoro e delle politiche fiscali del paese può ancora essere migliorato, eliminando quei meccanismi che continuano a mettere in difficoltà la classe media e non fanno percepire a tutti gli americani la forte ripresa economica degli ultimi anni. Obama per esempio ha chiesto al Congresso di rivedere il sistema dei prestiti con cui gli studenti si finanziano la costosa iscrizione al college e di continuare a investire in infrastrutture e innovazione tecnologica.
Uno degli aspetti che i Repubblicani hanno contestato di più della sua amministrazione – le misure contro il riscaldamento globale e l’inquinamento – è stato affrontato da Obama sul piano economico, prima ancora che su quello della salvaguardia ambientale. Il grande investimento fatto sul settore dell’energia pulita in questi anni ha pagato, ha detto Obama: le energie rinnovabili oggi negli Stati Uniti impiegano più persone dell’industria del carbone, e con lavori meglio pagati; gli Stati Uniti hanno ridotto di quasi il 60 per cento le importazioni di petrolio, hanno tagliato le emissioni di anidride carbonica e sono quasi indipendenti dal punto di vista energetico. «Potete decidere di non credere al cambiamento climatico», ha detto Obama rivolgendosi ai Repubblicani, «anche se questo vi mette in netta minoranza nel paese. Ma perché volete impedire agli imprenditori americani di prosperare nel business del futuro?».
Obama ha citato altre proposte concrete – tra cui l’intensificazione degli sforzi e degli investimenti per trovare la cura contro il cancro, iniziativa che sarà guidata dal vicepresidente Joe Biden, che ha recentemente perso il figlio Beau per un tumore al cervello – e ha argomentato che anche in politica estera sarebbe stato complicato fare meglio e di più, sfidando il Congresso ad autorizzare l’uso della forza militare contro l’ISIS se davvero pensa che Obama stia facendo troppo poco. Ma il vero messaggio del discorso è stato espresso nella parte finale, quando Obama si è rivolto di nuovo direttamente agli americani invitandoli a pensare che la soluzione ai loro problemi può venire solo da loro stessi, prima che dalla politica.
«Uno dei più grandi rimpianti della mia presidenza», ha detto Obama, «è che il rancore e il sospetto tra i partiti è peggiorato invece che migliorare». Obama si è assunto parte della responsabilità di questa situazione – «Non dubito che un presidente con le doti di Lincoln o Roosevelt avrebbe potuto far meglio per unire il paese, e vi garantisco che cercherò sempre di migliorare me stesso finché sarò presidente» – ma ha aggiunto che solo i cittadini americani possono decidere di cambiare la politica del paese.
«Ci sono moltissime brave persone in questa camera che vorrebbero vedere più collaborazione, un dibattito più alto, ma si sentono intrappolati dall’imperativa necessità di essere rieletti, dal rumore di fondo della loro base elettorale. Lo so: me lo hanno detto loro. È il più famoso segreto di Washington. E molti di voi non sono felici di essere intrappolati dal rancore. Se vogliamo una politica migliore, cambiare un deputato o un senatore o perfino un presidente non è abbastanza. Dobbiamo cambiare il sistema, perché rifletta la parte migliore di noi e non la peggiore»
Barack Obama ha chiesto quindi di interrompere la pratica nota come “gerrymandering“, cioè il ridisegno dei confini dei collegi elettorali allo scopo di dare a un certo partito la certezza della vittoria: questa pratica negli anni ha reso le elezioni molto più prevedibili e – dando la certezza della vittoria a un certo partito in molti collegi – ha rafforzato le ali più estreme del dibattito politico americano, polarizzando le posizioni dei candidati.
La risposta dei Repubblicani
È tradizione che il partito di opposizione tenga una “risposta” al discorso del presidente, trasmessa dai network televisivi poco dopo la fine del discorso al Congresso. È un modo per catalizzare l’attenzione dei mezzi di comunicazione e per fornire una risposta immediata alle affermazioni del presidente, anche se non è uno strumento di grande efficacia: non si ricordano grandi e storiche risposte ai discorsi presidenziali, mentre invece sentire un discorso normale da un luogo normale da parte di un politico normale, spesso sconosciuto ai più, poco dopo la massima solennità del discorso del presidente al Congresso, finisce spesso per mettere in imbarazzo e ridimensionare l’opposizione stessa, piuttosto che giovarle.
Negli ultimi anni i discorsi di risposta a Obama sono stati fatti da politici repubblicani molto in vista: l’ex governatore della Virginia McDonnell, il deputato e già candidato alla vicepresidenza Paul Ryan, il governatore dell’Indiana Mitch Daniels e il senatore e oggi candidato alla presidenza Marco Rubio. Dopo qualche anno di discorsi affidati a politici meno di primo piano, senza immediate aspirazioni presidenziali, quest’anno la risposta è stata pronunciata da Nikki Haley, governatrice Repubblicana del South Carolina, molto popolare e considerata una potenziale candidata alla vicepresidenza alle elezioni presidenziali di novembre. Haley, che è figlia di immigrati indiani, è molto cara alla destra americana ma ha posizioni moderate sull’immigrazione e ha dedicato a questo tema la parte più importante del suo discorso, criticando implicitamente Donald Trump: «Durante tempi così complicati può essere facile lasciarsi tentare dalle sirene delle voci più arrabbiate. Dobbiamo resistere a quella tentazione. Chiunque sia disposto a lavorare duro, rispettare le leggi e amare le nostre tradizioni dovrà sempre sentirsi il benvenuto in questo paese».
Il sopravvissuto designato
Durante il discorso sullo stato dell’Unione tutti i deputati, tutti i senatori, tutti i membri del governo, i giudici della Corte Suprema, il presidente e il vicepresidente degli Stati Uniti sono riuniti nello stesso posto. Per quanto il Congresso sia blindato e super protetto – Obama è difeso a stretta distanza dalla scorta anche quando si trova dentro l’aula – si tratta di una circostanza piuttosto pericolosa: in caso di attentato, esplosione, bombardamento, aereo di linea dirottato, eccetera, gli Stati Uniti si troverebbero decapitati, privi di qualsiasi forma di autorità nazionale riconosciuta. Per questa ragione ogni volta che un presidente si rivolge al Congresso in seduta plenaria – quindi anche ma non solo durante il discorso sullo stato dell’Unione – c’è un solo membro del governo che non partecipa all’evento: se ne sta da un’altra parte, in una località sconosciuta e sicura, e fa il designated survivor, il sopravvissuto designato, pronto a guidare la nazione dovesse accadere il patatrac.
La pratica è stata istituita durante la Guerra fredda, nel timore di un attacco nucleare. Durante il discorso sullo stato dell’Unione, al designated survivor viene assegnato un servizio di protezione speculare e identico a quello solitamente riservato ai presidenti, compreso un accompagnatore che porta con sé la famosa valigetta con i codici nucleari. In momenti particolarmente complicati della storia degli Stati Uniti, il designated survivor è stato addirittura il vicepresidente, così da assicurare al paese una leadership forte in caso di catastrofe: nel 2002, durante il discorso del presidente Bush in seguito agli attentati dell’11 settembre, il designated survivor fu proprio il vice presidente Cheney. Quest’anno il designated survivor è stato Jeh Johnson, segretario per la sicurezza nazionale.
In una celebre scena della serie tv The West Wing, il presidente Bartlet spiega al designated survivor cosa dovrà fare in caso di guai: chiamare il proprio migliore amico, tra le altre cose.