La storia di Sophie Kasiki
È una donna francese di 34 anni che si è unita allo Stato Islamico in Siria portando con sé il figlio di quattro anni, e che poi si è pentita ed è riuscita a scappare
Il Guardian ha raccontato la storia di Sophie Kasiki, il nome di fantasia di una ragazza francese di 34 anni partita per la Siria insieme al figlio di quattro anni e una delle pochissime ad essere riuscita a tornare indietro. Kasiki ha definito i due mesi che ha trascorso a Raqqa, città siriana considerata la “capitale” dello Stato Islamico (o ISIS), «come un viaggio all’inferno dal quale non c’è ritorno».
Kasiki è nata nella Repubblica Democratica del Congo, in una famiglia con una forte tradizione cattolica. All’età di nove anni, dopo la morte di sua madre, si è trasferita in Francia, nella periferia di Parigi. Kasiki ha raccontato che la morte della madre fu un trauma terribile per lei, che la lasciò con una depressione e un “vuoto emotivo” che nemmeno il matrimonio riuscì a riempire. Mentre lavorava come assistente sociale, aiutando soprattutto famiglie di immigrati, si convertì all’Islam di nascosto dal marito ateo, nella speranza che la religione potesse aiutarla a superare il suo trauma. La conversione le portò un temporaneo conforto, ha raccontato Kasiki, ma la mise anche in contatto con un gruppo di tre ragazzi musulmani che avrebbero avuto un ruolo importante nella sua decisione di partire per la Siria.
Nel settembre del 2014 i tre ragazzi, che avevano dieci anni meno di lei e con cui aveva un rapporto da “sorella maggiore”, scomparvero. Quando la contattarono alcune settimane dopo, le dissero di trovarsi in Siria, dove si erano uniti allo Stato Islamico. Kasiki e i ragazzi cominciarono a sentirsi quasi ogni giorni e lei diventò per loro l’unico collegamento con le famiglie rimaste in Francia. All’inizio Kasiki pensava di essere la persona in controllo nel complicato rapporto con i tre ragazzi, che le sembravano giovani e disperati e pronti a ritornare in Francia non appena lei avesse detto loro quanto mancavano alle loro madri: «Poi capii che dovevano essere stati addestrati a reclutare proprio persone come me. Poco a poco sfruttarono le mie debolezze. Sapevano che ero un’orfana, che mi ero convertita all’Islam, che ero insicura». Il 20 febbraio 2015 Kasiki disse al marito che sarebbe andata a svolgere qualche settimana di volontariato in un orfanotrofio di Istanbul, in Turchia, e che avrebbe portato con sé il figlio di quattro anni. Una volta arrivata in Turchia proseguì il viaggio: raggiunse il confine siriano e da lì arrivò a Raqqa.
Kasiki capì in fretta l’errore che aveva commesso. Le autorità civili dello Stato Islamico la assegnarono al reparto maternità di uno degli ospedali cittadini e lei rimase stupita dalle squallide condizioni del posto e dal disinteresse di medici e infermieri nei confronti dei loro pazienti. In tutta la città si respirava un’atmosfera oppressiva e la popolazione locale veniva sistematicamente tiranneggiata dai cosiddetti “foreign fighters” – i combattenti stranieri che vanno a combattere in Siria – e che vivono generalmente in condizioni migliori rispetto ai combattenti siriani. Dopo dieci giorni di “terrore paralizzante” – come lo ha definito lei – Kasiki iniziò a chiedere di essere rimandata indietro. Disse che le mancava la sua famiglia e che suo figlio aveva bisogno di rivedere il padre. Gli uomini dello Stato Islamico, tra cui i tre ragazzi che l’avevano spinta a partire, le impedirono però di lasciare la Siria. Prima le dissero che una donna da sola e con un figlio non poteva andare da nessuna parte e quando lei iniziò a insistere minacciarono di lapidarla e di prenderle suo figlio.
Kasiki ha raccontato di essere stata terrorizzata soprattutto dalla possibilità che suo figlio le venisse portato via per venire addestrato come un miliziano: «Gli parlavo continuamente cercando di imprimergli nella mente concetti che non avrebbe dimenticato facilmente. Che suo padre lo amava, che avrebbe dovuto essere gentile con le donne. Speravo che avrebbe assorbito questi concetti, così che se io fossi stata uccisa lui avrebbe continuato a sentire la mia voce nella testa e sarebbe stato incapace di uccidere». Quando i suoi carcerieri capirono che non si potevano più fidare di lei, la rinchiusero con il figlio in una madaffa, un edificio simile a una prigione dove erano rinchiuse altre donne occidentali con i loro bambini. Molte di loro sembravano più convinte della loro scelta rispetto a Kasiki e quando alla televisione vedevano filmati di decapitazioni esultavano entusiaste. Kasiki si rese conto che, per gli uomini dello Stato Islamico, quelle donne erano come animali da riproduzione, utili soltanto a generare nuovi combattenti.
Dopo pochi giorni Kasiki riuscì a fuggire grazie a una porta lasciata aperta per sbaglio. Si nascose a casa di una famiglia locale e contattò alcuni miliziani dell’opposizione che la aiutarono a scappare. A bordo di una motocicletta guidata da un guerrigliero, con il figlio nascosto sotto il velo nero che era costretta a indossare, il 24 aprile 2015 Kasiki riuscì finalmente a raggiungere il confine turco. Oggi Kasiki è tornata a vivere con il marito, ma rischia un processo per rapimento di minore. Ha già trascorso due mesi in carcere in Francia, dove è stata a lungo interrogata dalle autorità. Ha raccontato che ancora non riesce a credere come abbia potuto essere manipolata così facilmente. Oggi sente che il suo ruolo è quello di impedire che altre donne facciano il suo stesso errore. In Francia è da poco uscito “Dans la nuit de DAECH”, “Dentro la notte dell’ISIS”, il libro nel quale racconta il suo viaggio in Siria e il suo ritorno in Francia.