Quanto sono veri i film tratti da storie vere?
Non troppo, ha scritto il New York Times citando per esempio il caso di "Zona d'ombra" con Will Smith: raccontano cose non sempre accurate ma necessarie per esigenze narrative
In La grande scommessa – il film tratto dal saggio The Big Short – Il grande scoperto, scritto nel 2010 dal saggista statunitense Michael Lewis – c’è una scena, più o meno a 45 minuti dall’inizio del film (PICCOLO SPOILER) in cui uno dei protagonisti si gira verso lo schermo e dice: «Ok, questa parte non è del tutto accurata». Il personaggio è Jamie Shipley (interpretato dall’attore Finn Wittrock), che girandosi verso lo schermo “rompe” la quarta parete (lo schermo), ammettendo che il film di cui lui è un personaggio è per l’appunto un film, e quindi una storia non del tutto vera: che si sono prese delle libertà, delle licenze, modificando e riadattando a seconda delle esigenze narrative la storia su cui il film è basato.
Ai film basati su (o tratti da, o ispirati a) una storia vera, il New York Times ha dedicato un articolo in cui ha spiegato che non sempre le premesse di verità sono rispettate. Oltre a La grande scommessa, ci sono per esempio Il caso Spotlight (basato sulla storia di una vera inchiesta giornalistica), Joy (ispirato alla storia di Joy Mangano), Redivivo – The Revenant (in cui DiCaprio interpreta Hugh Glass, un personaggio realmente esistito) e Zona d’ombra (il film con Will Smith sull’NFL).
I biopic, i film che raccontano la vita di uno o più personaggi realmente esistiti e con storie notevoli, sono da almeno un paio di decenni uno dei generi preferiti da Hollywood. Spesso questi film sono quelli con le produzioni più grosse e gli attori più famosi, e soprattutto sono quelli che vengono maggiormente premiati agli Oscar: degli otto candidati all’Oscar per il miglior film del 2015, ad esempio, quattro avevano in qualche modo origine da eventi realmente accaduti (erano American Sniper, The Imitation Game, Selma – La strada per la libertà e La teoria del tutto). L’anno precedente il fenomeno è stato ancora più evidente: erano tratti da storie vere o addirittura biografici sei dei nove film candidati allo stesso premio (12 anni schiavo, Captain Phillips, American Hustle, Philomena, Wolf of Wall Street e Dallas Buyers Club). Anche i primi tre posti nella classifica del 2015 delle storie più belle non ancora diventate film ma che forse lo diventeranno – la Black List di Hollywood – sono occupati da tre storie vere: quella di un giocatore di baseball, quella di Jeff Bauman e quella di Bubbles, lo scimpanzé di Michael Jackson.
I film tratti da storie vere hanno spesso successo: il New York Times spiega che «le parole “basato su una storia vera” servono a vendere meglio il film, a differenziarlo dai brand e dai personaggi come i Marvel, i Lego, i Transformers e quelli di Star Wars». Personaggi come questi – protagonisti di remake, saghe e sequel di ogni tipo – vanno bene per l’estate e per le vacanze di Natale, mentre i film tratti da storie vere – storiche o più attuali – sono in genere più indicati per puntare ai più importanti premi del cinema e sono usati tra le altre cose dalle case cinematografiche per darsi un’immagine pubblica più impegnata e “culturale”.
Il problema è che i film che puntano molto sull’essere basati su storie vere devono, una volta usciti, confrontarsi con quelle storie. Soprattutto grazie a internet, gli spettatori si stanno dedicando sempre più a ispezionare ogni dettaglio di film e storie su cui sono basati, per trovare differenze ed “errori”. In alcuni casi sono addirittura i protagonisti di quelle storie a criticare il modo in cui il film ha raccontato e mostrato diversi aspetti delle loro vere vite. È successo per esempio che Gerald E. Heller – un agente musicale che nel film Straight Outta Compton (che racconta la storia del gruppo hip N.W.A.) è interpretato da Paul Giamatti – abbia deciso di fare causa per diffamazione alla Universal, la casa di produzione del film. Heller ha sostenuto di essere stato male rappresentato in Straight Outta Compton, che «ha avuto lo scopo di ridicolizzarlo e rovinare la sua immagine». Ha chiesto 115 milioni di dollari di risarcimento e un giudice federale di Los Angeles dovrà decidere a riguardo.
In Zona d’ombra Will Smith interpreta Bennet Omalu, il neuropatologo che mostrò come, in base ai suoi dati, una malattia degenerativa del cervello colpiva con particolare frequenza i giocatori di football americano (il cui più importante campionato è la NFL) che ricevono molti duri colpi alla testa. Il film è stato criticato di aver smorzato certi toni – alterando quindi parte della verità – per evitare eccessive reazioni da parte della NFL. Sony Pictures Entertainment, la casa di produzione di Zona d’ombra, ha smentito le accuse. Il caso Spotlight è stato accusato di non aver raccontato con fedeltà giornalistica la sua storia sul giornalismo, cioè un’inchiesta del Boston Globe che scoprì molti casi di pedofilia all’interno della diocesi cattolica di Boston. La grande scommessa è invece stato molto criticato dal giornalista del Wall Street Journal Holman W. Jenkin, Jr., che in un suo articolo intitolato “Big Short, Big Hooey” (“La grande scommessa è una grande cazzata“) ha spiegato che nessuno si aspetta che un film di Hollywood sia giornalismo, ma che secondo lui il film semplifica troppo e male una questione che è ben più complessa di come appare.
A. O. Scott, capo dei critici di cinema del New York Times, ha risposto alla questione riguardante i film tratti da storie vere dicendo: «Tutti i film che non sono documentari sono opere di finzione, che parlino o no di eventi davvero accaduti». «Le uniche persone così stupide da non capirlo sono gli intellettuali certificati – giornalisti e professori universitari, soprattutto – in cerca di materiali per i loro articoli». Che poi, scrive il New York Times, gli Oscar si vincono quando si fa un bel film, non quando si dice la verità.