Perché bisogna occuparsi della Libia
Cosa sta succedendo nel paese che ospita la base più importante dell'ISIS fuori da Siria e Iraq, a due passi dalla Sicilia, tra il petrolio e l'ipotesi di un intervento internazionale
di Elena Zacchetti – @elenazacchetti
Negli ultimi giorni lo Stato Islamico (o ISIS) ha lanciato nuovi attacchi contro le installazioni petrolifere libiche e in particolare contro il porto di Sidra, dove si trovano alcune delle infrastrutture per lo sfruttamento del petrolio più importanti della Libia. Gli attacchi sono stati respinti dalle guardie delle installazioni del petrolio, ma lo Stato Islamico è riuscito comunque a prendere il controllo di Bin Jawad, un’importante città che si trova a circa 30 chilometri a ovest di Sidra, sulla costa. Giovedì invece un attentato a un centro di addestramento militare a Zliten ha ucciso decine di persone: lo Stato Islamico in Libia ha rivendicato l’attacco. Gli attacchi sono stati ripresi parecchio dalla stampa internazionale, che tra le altre cose è tornata a occuparsi di un possibile intervento internazionale in Libia che potrebbe coinvolgere anche l’Italia, per i suoi storici legami politici e industriali con la Libia e non solo. In ordine, allora, queste sono alcune cose da sapere per capire cosa sta succedendo in Libia e quanto c’è da preoccuparsi.
Sidra, Ben Jawad, Sirte, di che si parla?
Questa è la Libia. La costa meridionale della Sicilia dista circa 450 chilometri via mare.
Una mappa di BBC sulla situazione in Libia
Sidra è una città che si trova sulla costa, tra Sirte (a ovest) e Bengasi (a est), e non lontano dal porto di Ras Lanuf: è una delle infrastrutture petrolifere più importanti della Libia, perché da qui il greggio viene caricato sulle navi e trasportato nei paesi importatori, tra cui l’Italia. Sidra è in una posizione piuttosto complicata: si trova vicino alla zona dove è più forte la presenza dello Stato Islamico in Libia – in particolare a Sirte – e vicino alla divisione tra l’area del paese controllata dal “parlamento occidentale” (quello di Tripoli, controllato da una coalizione di forze islamiste chiamata “Alba della Libia”) e quella controllata dal “parlamento orientale” (quello di Tobruk, riconosciuto internazionalmente).
I due parlamenti sono rivali e competono per il controllo del territorio, nonostante il 17 dicembre si sia trovato un accordo mediato dall’ONU per la formazione di un governo di unità nazionale. Per il momento l’accordo rimane sulla carta – si sta lavorando per implementarlo – ma intanto si è formato un “Consiglio presidenziale” che dovrà cominciare a occuparsi della nomina dei ministri. Entrambi i parlamenti sono nemici dello Stato Islamico in Libia, anche se diverse milizie locali alleate con loro – e in Libia le milizie armate autonome sono moltissime – collaborano con lo Stato Islamico per questioni di opportunità.
Alla fine di novembre il New York Times aveva pubblicato un articolo dettagliato sulla presenza dello Stato Islamico in Libia, che descriveva una situazione molto preoccupante: Sirte, scriveva il New York Times, era diventata la base più importante del gruppo fuori da Siria e Iraq, e gli uomini dello Stato Islamico controllavano circa 250 chilometri di costa libica. Nelle ultime settimane lo Stato Islamico ha messo pressione soprattutto sul golfo di Sidra, e ha detto di avere preso il controllo di Bin Jawad. Come ha scritto Daniele Raineri sul Foglio, «la città era già stata infiltrata in massa dagli uomini dello Stato Islamico e per questo la dichiarazione di conquista assomiglia più a un tentativo di ufficializzare uno stato di fatto – però la situazione sul terreno è ancora in bilico, la città è contesa, ci sono scontri». Ad ogni modo la provincia libica dello Stato Islamico ha diffuso foto e video da Bin Jawad che mostrano per esempio alcuni miliziani che danno fuoco a delle sigarette, come per dire che la loro versione radicale della sharia – la legge islamica – è stata implementata anche qui.
Come ha fatto lo Stato Islamico a espandersi così in Libia?
Lo Stato Islamico in Libia è formato da poche migliaia di uomini: il dipartimento di Stato americano dice circa 3.500, altri analisti dicono 5mila. La filiale locale ha cominciato a svilupparsi alla fine del 2014 con l’arrivo in Libia di Abu Nabil al Anbari, un iracheno ex compagno di carcere di Abu Bakr al Baghdadi, il capo dello Stato Islamico (al Anbari è stato ucciso a Derna il 13 novembre: sembra che fosse lui il capo dello Stato Islamico in Libia, conosciuto con il nome di Abu Mughirah al Qahtani). L’obiettivo dello Stato Islamico – ha scritto nella sua inchiesta il New York Times – è trasformare la Libia nella nuova base del gruppo, nel caso in cui la situazione in Siria diventi non più gestibile.
Abu Nabil al Anbari (in Libya: Abu Mughirah al Qahtani) speaking before assault on Samarra in Iraq on June 5 2014 pic.twitter.com/zsgWPQLYAm
— Daniele Raineri (@DanieleRaineri) January 5, 2016
Anche in Libia, come era successo prima in Siria e in Iraq, lo Stato Islamico è riuscito a espandersi sfruttando il caos e la mancanza di un governo in grado di controllare il territorio nazionale, oltre che le rivalità tra le molte milizie locali. La necessità di stabilità è il principale motivo per cui l’Unione Europea e l’ONU stanno facendo pressioni sui due parlamenti della Libia per implementare l’accordo raggiunto lo scorso dicembre, che prevede la formazione di un nuovo governo di unità nazionale che sia in grado di esercitare il suo controllo su tutto il paese. Uno dei risultati che si potrebbero ottenere dalla formazione di un nuovo governo di unità nazionale è una gestione pacifica delle risorse petrolifere, il cui sfruttamento potrebbe ripartire a pieno regime dopo le incertezze e i notevoli rallentamenti degli ultimi quattro anni.
Cosa ci fa con il petrolio l’ISIS?
Gli Stati Uniti credono che lo Stato Islamico stia replicando in Libia la stessa strategia usata in passato negli attacchi alle installazioni petrolifere in Siria e Iraq: prima sabotare i giacimenti petroliferi e gli oleodotti, e una volta che l’installazione ha cominciato a perdere di valore a causa degli attacchi subiti e dei troppi rischi necessari per garantirne la sicurezza, prenderne il controllo. Una cosa importante da tenere a mente è che lo Stato Islamico in Libia non sarebbe in grado di commerciare il petrolio delle installazioni conquistate, soprattutto perché le infrastrutture sono molto danneggiate: per esempio quelle di Sidra e Ras Lanuf sono chiuse da circa un anno (secondo i dati dalla National Oil Company, la società che gestisce il petrolio in Libia, la produzione petrolifera prima del 2011 era di 1,5 milioni di barili al giorno, oggi è un terzo).
Il Wall Street Journal ha scritto che lo Stato Islamico vuole impedire a un futuro governo libico di usare le risorse petrolifere del paese, peggiorando ulteriormente la già critica situazione dell’economia libica: il Fondo Monetario Internazionale ha detto che la Libia è in “grave rischio”, visto che nel 2015 la sua economia si è contratta del 6 per cento (l’Economist Intelligence Unit ha stimato una perdita dell’8 per cento per il PIL della Libia nel 2016).
Islamic State group presses assault on key Libya oil region https://t.co/OfiTkDKCfE pic.twitter.com/ZWymwOwcn9
— AFP News Agency (@AFP) January 6, 2016
Prendendo il controllo delle risorse energetiche della Libia, lo Stato Islamico non danneggerebbe solo il governo libico, ma anche i paesi europei che da lì importano petrolio e gas, come l’Italia. In un’intervista a Qathani pubblicata sul numero 11 di Dabiq, la rivista dello Stato Islamico, si leggeva: «È importante notare come le risorse libiche siano una preoccupazione per gli infedeli dell’Occidente vista la loro lunga dipendenza dalla Libia, specialmente riguardo al petrolio e al gas. Il controllo dello Stato Islamico su questa regione porterà a un crollo dell’economia specialmente per l’Italia e il resto degli stati europei» (in realtà a differenza di quello che dice la propaganda dello Stato Islamico, l’economia italiana non crollerebbe nel caso di un’interruzione delle forniture libiche, anche se ci sarebbero comunque conseguenze).
In recent months IS propaganda has referred to the benefits of #Libya's oil wealth. See this in its Dabiq magazine: pic.twitter.com/C39ZgLawht
— Mary Fitzgerald (@MaryFitzger) January 4, 2016
La situazione dell’Italia è particolare a causa della presenza dell’ENI, la più importante azienda energetica italiana che dalla scorsa primavera è diventata l’unica società internazionale ancora in grado di produrre e distribuire petrolio e gas in Libia.
Diversi mesi fa il Wall Street Journal aveva raccontato che le operazioni dell’ENI erano rimaste in qualche modo escluse dai combattimenti tra le forze armate legate ai due governi, grazie a degli accordi locali sulla sicurezza. Per esempio, nell’estremo ovest della Libia l’ENI possiede un gasdotto che trasporta circa il 10 per cento delle forniture di gas naturale dell’Italia: questo gasdotto si trova vicino a un campo di addestramento jihadista, ma è protetto da una milizia che fa parte della coalizione islamista “Alba della Libia”. Nel giacimento di Wafa, nel sud della Libia, i partner locali di ENI si sono rivolti invece ad alcuni giovani di Zintan, una città alleata con i rivali di “Alba della Libia” a Beida, città nel nord-ovest della Libia. La sicurezza delle installazioni dell’ENI in Libia, oltre che la questione dei migranti che partono dalle coste libiche per raggiungere l’Italia, sono tra i motivi più importanti che hanno portato il governo italiano a valutare, insieme ad altri paesi europei, l’ipotesi di un intervento in Libia contro lo Stato Islamico.
A che punto sono le discussioni sull’intervento in Libia
Da diverso tempo si parla di un possibile intervento internazionale in Libia contro lo Stato Islamico, anche se finora non è stato fatto molto. Diversi governi europei, tra cui quello italiano, hanno ripetuto che il primo passo era la formazione di un governo di unità nazionale, un processo che è iniziato ma il cui esito è ancora molto incerto. In Libia oggi sono presenti le forze speciali britanniche, francesi e americane, impegnate soprattutto in operazioni di intelligence.
All’inizio di dicembre il Foglio aveva scritto anche della presenza delle forze speciali italiane, che fu poi smentita dal ministero degli Esteri. Arturo Varvelli, analista dell’Istituto per gli studi della politica internazionale (ISPI), ha detto a Bloomberg: «Lo scenario più probabile è un intervento del governo libico con l’aiuto di una coalizione di stati stranieri. Nessuno vuole mandare soldati, quindi qualsiasi coalizione di stati stranieri sarà limitata all’uso di piccole unità per l’addestramento e alcune forze speciali. C’è troppa anarchia là fuori». Il governo di Matteo Renzi ha espresso in passato l’intenzione di continuare a seguire le vicende della Libia e di rivestire un ruolo importante in qualsiasi decisione venga presa a riguardo: è difficile prevedere adesso in cosa si tradurrà questo impegno nei prossimi mesi.