Forme e formati dei film sono importanti

Cosa sono i film "in 70 millimetri"? Cambia davvero qualcosa? E tra tutti i formati con cui sono disponibili ora, che differenza c'è? Cose che se le sapete, poi le notate

Una foto da "Nuovo Cinema Paradiso" (ANSA / UFFICIO STAMPA)
Una foto da "Nuovo Cinema Paradiso" (ANSA / UFFICIO STAMPA)

Da un po’ di giorni si parla molto di The Hateful Eight, il nuovo film di Quentin Tarantino uscito negli Stati Uniti a dicembre e che in Italia arriverà a febbraio: è un film-di-Tarantino e, come al solito, se ne parla per motivi molto diversi: questa volta uno è che “è girato in 70 millimetri”, un formato di ripresa e proiezione molto costoso ma che dovrebbe offrire una qualità molto più alta di quella a cui siamo abituati. Di un’altra questione che ha a che fare con la tecnica cinematografica si parla invece da un paio di giorni: da quando il regista canadese Xavier Dolan ha scritto una lettera aperta a Netflix UK in cui ha criticato – molto – il fatto che Netflix avesse modificato il formato di una delle scene del suo film Mommy. In una scena di Mommy l’aspect ratio – il rapporto tra larghezza e lunghezza dell’immagine – mostrata era di 1:1 (un quadrato) e Netflix l’ha fatto diventare di 1.85:1 (un rettangolo, con il formato tipico dei film). «Avete cancellato la potenzialità emotiva di quella scena, disgregato il sentimento di oppressione sociale rappresentato da quel formato», ha detto Dolan.

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Le questioni sui 70mm di The Hateful Eight e l’aspect ratio di Mommy possono essere ritenute dei tecnicismi, ma riguardando il cinema diventano una cosa di cui si interessano un sacco di persone. Della questione si è occupato Charles Bramesco, che su Vox ha scritto: «Abbiamo una capacità innata di riconoscere immagini differenti, ma pochi di noi sanno a cosa sono dovute le differenze tra immagini. Sappiamo che ci sono, solo a volte non sappiamo di saperlo. Il pubblico “normale” potrebbe non essere in grado di definire cos’è il formato “35 millimetri” o cos’è “l’Academy ratio“, ma dopo anni di film li riconosce entrambi all’istante».

L’Academy ratio e i 35 millimetri, per iniziare
L’Academy ratio è la ratio (la proporzione) 1.37:1, quella usata in quasi ogni film fatto dagli anni Trenta al 1952 (e da lì in poi usata solo in rari casi, per esempio in alcune scene di Grand Budapest Hotel di Wes Anderson). Si chiama così perché fu istituzionalizzata dall’Academy of Motion Picture Arts and Sciences, quella degli Oscar. L’Academy ratio fu sostituita perché cambiarono gli schermi, diventando più larghi e rettangolari, ed è il motivo per cui certi vecchi film visti su nuovi televisori non occupano tutto lo schermo, lasciando del nero a destra e a sinistra (le vecchie tv erano in 4:3, i nuovi schermi sono di solito in 16:9). Il formato “35 millimetri” è quello più comune, in pratica da inizio Novecento, per le pellicole cinematografiche: si chiama così perché la pellicola – il nastro perforato su cui si imprimono le immagini quando si gira un film – è larga 35 millimetri, 20 circa dei quali sono occupati dall’immagine. Lo spazio che resta è occupato dalla “traccia audio” e da fori che servono – alla cinepresa prima e al proiettore poi – per agganciare la pellicola e farla “girare”.

Analogico e digitale
La pellicola, la cinepresa e il proiettore sono però diventati qualcosa di vecchio, da quando è arrivato il cinema digitale: ma, anche in questo caso, cos’è il cinema digitale? È il cinema che per “registrare” immagini fa quello che fa una fotocamera digitale con una foto, senza dover inserire una pellicola nella fotocamera e senza doverla sviluppare. Il cinema analogico – quello con le pellicole – era, scrive Bramesco, «un processo lungo, laborioso, con un sacco di spazio perché un errore tecnico o umano mandasse tutto all’aria». Letteralmente all’aria, anche: come spiegano certi film la pellicola aveva, tra le sue caratteristiche, quella di prendere fuoco molto facilmente.

Il cinema digitale è quindi meno caro, più veloce, più efficace e più sicuro di quello “analogico”, con le pellicole. Tuttavia secondo alcuni registi – Tarantino, per esempio – la pellicola è diversa, migliore, più artigianale e più artistica: ha degli svantaggi e delle imperfezioni (le bruciature di sigaretta di Fight Club, per esempio), ma proprio per questo è ritenuta da alcuni più vera e interessante. Bramesco scrive che la pellicola (“film”, in inglese) è «capace di ispirare nostalgia, soprattutto tra gli esperti di cinema; le immagini digitali sono, a confronto, “lucidate” e asettiche». Il cinema digitale è, secondo Tarantino, “televisione pubblica”: rispetto alla tv c’è, nel cinema digitale, uno schermo più grande, nulla più.

Il cinema digitale esiste da prima del Duemila: George Lucas usò per esempio alcune immagini in digitale per Star Wars: Episodio I – La minaccia fantasma. L’anno di svolta per la cinematografia digitale è però il 2009: in quell’anno The Millionaire di Danny Boyle (girato quasi tutto in digitale) vinse l’Oscar per la miglior fotografia (un Oscar “artistico”, che nobilitava quindi per la prima volta il digitale). Per il momento pellicola e digitale, ognuno con i suoi pregi e difetti, stanno convivendo: il nuovo film di Boyle, Steve Jobs, è per esempio girato sia in digitale che in analogico, a seconda del pezzo di storia di Jobs che racconta.

35, 16, 8 o 70 (millimetri)
Le pellicole cinematografiche esistono in quattro misure e ognuna ha le sue proprietà e i suoi usi. Il principio base è che più una pellicola è larga e più dettagliata e di qualità è l’immagine registrata (e più cara è la pellicola). La maggior parte dei film non girati in digitale – Il risveglio della forza, per esempio – sono su pellicola da 35 millimetri. (Oggi la maggior parte dei film sono in digitale). Ci sono poi le pellicole da 16 millimetri, che costano poco e sono state spesso usate in tv (le prime due stagioni di Buffy l’ammazzavampiri, per esempio) e ci sono poi le pellicole da 8 millimetri (quelle delle Super 8 e dei filmini familiari).

E poi c’è la pellicola da 70 millimetri, quella di Tarantino e, prima di lui, quella usata per Ben-Hur (1959) o Lawrence d’Arabia (1962). Secondo Bramesco «vedere un film in 70 millimetri è un’esperienza trascendente per i sensi» (c’è più spazio anche per l’audio, non solo per le immagini), ma le pellicole sono care, come le strumentazioni per usarle.

Le forme dei film, infine
Di qualsiasi film – analogico o digitale, in 35 o 70 millimetri – va anche decisa una forma, una ratio. Le proporzioni più comuni per i film degli ultimi anni sono due: 1.85:1 o 2.39:1; «ma ogni nuovo mese sembra che qualcuno s’inventi una nuova eccezione», scrive Bramesco. Il digitale ha reso molto semplice cambiare (come ha fatto Netflix) la ratio di un film e anche in questo caso i registi scelgono a volte diverse ratio per lo stesso film: in Grand Budapest Hotel c’è il 2.35, l’1.85 e l’1.37, a seconda delle necessità.

Immagine da Voxvox

Perché serve sapere tutto questo?
Non è indispensabile avere queste informazioni ma, insieme a molte altre cose tecniche dei film, conoscerle aiuta ad apprezzare meglio e di più quello che si vede o, comunque, a mettersi nelle condizioni di vederlo al meglio. Bramesco scrive, parlando di Tarantino:

Quando il più popolare autore cinematografico statunitense si avventura quasi da solo nel revival di una tecnologia cinematografica vecchio stile, fare caso ai tecnicismi del cinema e alle caratteristiche di una pellicola non è solo una cosa pazza da cinefilo disperato. Il diritto di un’immagine in movimento al meglio delle sue possibilità, nella sua forma più completa, è uno di quegli inalienabili diritti di chi va al cinema. Insieme al diritto a tirare popcorn non scoppiati sulla testa di quelli davanti a voi che usano il cellulare durante il film.