Chi ha ucciso la pena di morte in America?
I contribuenti, le industrie farmaceutiche o i parenti delle vittime? Se lo chiede l'Economist, partendo dal fatto che le condanne sono sempre di meno
L’Economist ha pubblicato un articolo sulla pena di morte negli Stati Uniti dicendo che nel 2015 ci sono state “solo” 28 esecuzioni: è il numero più basso dal 1991. In Texas – dove avvengono in media più di un terzo di tutte le esecuzioni del paese – i detenuti uccisi dallo stato nel 2015 sono stati due; l’anno prima erano stati 11. «Statisticamente e politicamente», dice l’Economist, questa forma di “machismo politico” è in crisi: senza che si arrivi all’abolizione formale della pena di morte, presto qualcuno diventerà «l’ultima persona a essere giustiziata negli Stati Uniti». Ci sono diverse spiegazioni per questa tendenza.
Sul declino della pena di morte incide innanzitutto la sua scarsa popolarità nell’opinione pubblica: la maggior parte degli americani è ancora favorevole alla sua applicazione, ma la percentuale è diminuita sensibilmente rispetto alla metà degli anni Novanta, quando era intorno all’80 per cento (attualmente è intorno al 60 per cento circa). L’alternativa di un ergastolo senza condizionale, che offre la certezza che un imputato non possa mai essere rilasciato, è dunque un’opzione che viene sempre più considerata dalle giurie.
Questo cambio di approccio si deve in parte al numero cospicuo di errori giudiziari che portano a scagionare i condannati dopo il processo. Ci sono poi le discussioni sull’arbitrarietà dell’applicabilità della pena capitale: quelle che hanno a che fare con la disparità razziale nell’applicazione e quelle legate a semplici problemi geografici: in una sentenza dello scorso giugno della Corte Suprema degli Stati Uniti, i giudici di minoranza rilevarono che conoscendo lo stato o la contea in cui era stato commesso un omicidio, si era sostanzialmente in grado di prevedere se la persona condannata per quell’omicidio sarebbe stata anche condannata a morte.
Alla controtendenza ha contribuito anche, dice l’Economist, un «gruppo piuttosto improbabile»: i parenti delle persone uccise dai condannati a morte preferiscono sempre di più la morte in solitudine e inosservata degli assassini dei loro cari. Poi c’è una questione economica. I casi giudiziari che si concludono con una condanna a morte richiedono moltissime risorse, come mostrano diversi studi: incidono la durata più lunga dei processi (secondo gli ultimi calcoli tra la condanna e le esecuzioni trascorrono in media 16 anni), la carcerazione in isolamento (che è più costosa rispetto al carcere normale), la raccolta più complicata delle prove, il ricorso a un numero maggiore di specialisti (psicologi e investigatori).
Infine c’entra la mancanza dei preparati necessari per le iniezioni letali, la cui scarsa disponibilità dipende anche da un boicottaggio internazionale. Una delle sostanze più utilizzate nelle iniezioni letali, il Pentobarbital, sta diventando molto difficile da reperire. Si tratta di un barbiturico che si usa soprattutto per le eutanasie animali ma anche per quelle umane (per esempio nei Paesi Bassi). Per anni il Pentobarbital è stato usato come componente principale per le iniezioni letali in diversi stati americani. Quando però la notizia dell’utilizzo della sostanza si è diffusa in Danimarca, dove ha sede il produttore, una campagna di stampa ha spinto la società a bloccare tutte le vendite. Gli stati che eseguono ancora condanne a morte sono passati a nuove misture che non si sono però rivelate affidabili, uccidendo i condannati dopo lunghe e terribili agonie. Altri metodi, come l’inalazione di azoto sperimentata in Oklahoma o il plotone di esecuzione reintrodotto nello Utah lo scorso marzo sono molto poco popolari tra la popolazione.
Se si sta praticamente arrivando a una fine di fatto della pena di morte negli Stati Uniti, un’abrogazione definitiva può arrivare solo con una legge di valore federale (e, probabilmente, una successiva sentenza della Corte Suprema). Oggi negli Stati Uniti le condanne a morte sono in calo quasi ovunque e sono state abolite in 19 stati (tra cui Michigan, Wisconsin e nel 2015 il Nebraska). Di questi, 7 lo hanno fatto negli ultimi nove anni, mentre altri hanno applicato una moratoria di fatto. «Dopo tutto», dice l’Economist, «un minor numero di stati che applicano la pena, rendono la pena stessa sempre più “insolita”, e quindi incostituzionale». Tutti gli argomenti elencati potrebbero contribuire a uccidere la pena di morte, conclude l’Economist, ma in realtà «la pena di morte è in scadenza a causa delle sue stesse contraddizioni» come dimostrano decenni di contenziosi e il fatto che nel resto del mondo occidentale è riconosciuto che uccidere i detenuti è fondamentalmente incompatibile con i fondamenti di una società civilizzata: «Nel verdetto finale, la pena di morte americana si è uccisa da sola».