Cosa rende il cibo “artigianale”?
Negli Stati Uniti il caso di un'azienda hipster che produce cioccolato "artigianale" ha aperto un più ampio dibattito sull'autenticità dei prodotti etichettati come tali
di Gabriele Rosso
Nelle scorse settimane negli Stati Uniti è circolata molto su siti web, riviste e quotidiani una discussione sui Mast Brothers e il loro cioccolato artigianale che, come si è scoperto, all’inizio così artigianale non era. Tutto è nato da una serie di articoli pubblicati sul blog Dallasfood e firmati da Scott Craig, poi rilanciati dai principali mezzi di informazione nazionali, New York Times compreso. La vicenda è circolata così tanto che da semplice polemica sulle presunte bugie dei fratelli Mast è sfociata in un dibattito su “che cos’è il cibo autenticamente artigianale”.
Rick e Michael Mast sono due produttori di cioccolato dallo stile decisamente hipster, come testimoniano le loro folte barbe. Hanno iniziato l’attività imprenditoriale nel 2008 e in breve tempo, anche grazie a un efficace lavoro di comunicazione e di marketing, hanno raggiunto un discreto successo: oggi gestiscono tre punti vendita a Brooklyn, Londra e Los Angeles. Le loro tavolette di cioccolato si distinguono per il design delle confezioni e per il prezzo elevato, intorno ai 10 dollari per una barretta da 70 grammi. Fin dall’inizio si sono dichiarati produttori di cioccolato from bean to bar, dalla fava alla tavoletta. Produrre cioccolato from bean to bar significa non fare ricorso a semilavorati di origine industriale: curare ogni passaggio del processo produttivo è molto costoso e complicato, tanto che sono in pochi a farlo.
Gli articoli di Craig, intitolati What Lies Behind the Beards (Cosa c’è dietro le barbe), accusano i fratelli Mast di aver mentito: durante i primi anni di attività, come poi hanno ammesso, non producevano cioccolato esclusivamente from bean to bar, nonostante così dichiarassero. Craig li accomuna, con un paragone di effetto, ai Milli Vanilli, cantanti R&B di fine anni Ottanta che durante un concerto in playback continuarono a muovere le labbra nonostante il disco si fosse “inceppato”: «si sono vestiti con abiti originali e barbe appariscenti […] Hanno parlato di autenticità e di “riconnettere” il pubblico con sentieri del cibo perduti. A maggio del 2008 si sono proclamati pubblicamente i “leader della rivoluzione del cioccolato” […] Ma nonostante una facciata attraente, quella dei primi Mast Brothers era una fabbrica di cioccolato-Potemkin, che rielaborava un preparato industriale modellato e re-impacchettato».
In seguito alle polemiche suscitate dalla vicenda, sul Washington Post è uscito un articolo di Maura Judkis dal titolo Does “artisanal” equal “special”? Why we’re so ready to believe that it does (“Artigianale” è uguale a “speciale”? Perché siamo disposti a credere che sia così). Elencando altri casi di finto artigianato, l’autrice sottolinea come tutti questi prodotti abbiano in comune una cosa: hanno una storia da raccontare. E la storia, come nel caso dei fratelli Mast, è la ragione per cui la gente li compra. Secondo Peggy Clark, direttrice dell’Alliance for Artisan Enterprise, «il mercato globale chiede questo elemento umano di autenticità». Il pericolo, però, è che parole come “autentico”, “artigianale”, “naturale” o “fatto a mano” diventino puri strumenti di marketing. Negli ultimi mesi ci sono state discussioni simili anche in Italia: un esposto del Codacons accolto nello scorso luglio ha impedito l’utilizzo della dicitura gelato artigianale alla catena GROM, per esempio, perché le miscele utilizzate vengono realizzate in un unico centro produttivo.
Davvero, scrive Judkis, «qualsiasi cosa può essere artigianale, se c’è un venditore con una bella storia alle spalle e un pubblico disposto a credergli». Il punto è che non sono soltanto le aziende a voler chiamare i propri prodotti “artigianali”, ma lo vogliono i consumatori stessi: «Essere una persona che acquista cose uniche può diventare un tratto distintivo della personalità». Come ha detto Americus Reed, professore di marketing della Wharton Business School della University of Pennsylvania, «se compri questo tipo di cose, questi prodotti artigianali, sei una persona più interessante. Quando qualcuno ti chiede “cos’è quello?”, tu puoi raccontare una storia. Puoi raccontare la storia dell’azienda».
Insomma, continua l’articolo, «dateci una buona storia e diventiamo un mucchio di imbecilli». Ma il punto sollevato dal Washington Post è: come possiamo misurare o quantificare l’autenticità di un prodotto? Finché non saremo in grado di farlo, afferma Judkis, sarà difficile essere sicuri che stiamo pagando per qualcosa di più che per delle semplici storie.