Il Giappone ha chiesto scusa alla Corea del Sud per la storia delle “schiave del sesso”
La questione era da tempo causa di tensioni diplomatiche: ora sarà stanziato un fondo per risarcire e aiutare le vittime
I ministri degli esteri della Corea del Sud e del Giappone hanno raggiunto un accordo nel caso delle cosiddette “schiave del sesso”, le donne costrette a prostituirsi nei bordelli militari giapponesi prima e durante la Seconda guerra mondiale provenienti dai paesi vicini, soprattutto Corea del Sud e Cina. La questione era stata in questi anni una delle maggiori cause di tensione tra i due paesi. Lunedì 28 dicembre il ministro degli Esteri giapponese Fumio Kishida ha detto che il primo ministro Shinzo Abe ha porto le sue scuse ufficiali e si è impegnato a stanziare un fondo di 8,3 milioni di dollari di risarcimento e aiuti per le vittime.
Finora non solo il Giappone non si era mai scusato con i paesi dai quali provenivano queste donne, ma da anni un grosso movimento conservatore stava spingendo affinché venisse usata l’espressione “donne di compagnia” al posto di “schiave del sesso”, che implicava invece che le donne fossero state prelevate con la forza e costrette a prostituirsi. Abe aveva sempre difeso il Giappone, commentando duramente le storie sul reclutamento forzato e dicendo che avevano provocato «sofferenze a molte persone e danni alla reputazione del Giappone nella comunità internazionale».
Nel 2014 lo Yomiuri Shimbun, il più grande quotidiano del Giappone, aveva pubblicato un editoriale per scusarsi con i suoi lettori per avere usato decine di volte negli articoli della sua edizione in lingua inglese l’espressione “sex slaves” (“schiave del sesso”) e non “comfort women” (“donne di compagnia”). Qualche mese prima un suo concorrente, il giornale di sinistra Asahi Shimbun, aveva ritrattato una serie di articoli riguardo lo stesso argomento. Asahi aveva detto che molte storie pubblicate negli anni Ottanta e Novanta sul forzato “arruolamento” delle donne nei bordelli dei soldati giapponesi si erano basate in realtà sulla falsa testimonianza di Seiji Yoshida, ex soldato giapponese che aveva raccontato di essere stato testimone del rapimento di alcune donne sudcoreane dell’isola di Jeju, donne poi finite nei bordelli giapponesi.
Un’indagine del governo dell’inizio degli anni Novanta aveva concluso che molte delle “donne di compagnia” erano state prelevate contro la loro volontà, vivendo poi in coercizione e condizioni di miseria: l’inchiesta non aveva però trovato prove solide e documenti ufficiali, circostanza che era stata usata dai movimenti conservatori per sostenere che non c’era stata nessuna coercizione. Contro Asahi Shimbun era stata intentata anche una causa collettiva. I querelanti sostenevano che il sistema delle cosiddette “donne di compagnia” aveva «provocato una indescrivibile umiliazione non solo sugli ex soldati, ma anche sui cittadini giapponesi onorevoli… che vengono etichettati come discendenti di stupratori di gruppo». Il Guardian e altri giornali internazionali avevano commentato che la falsa testimonianza di Seiji Yoshida di per sé non smentiva l’esistenza in assoluto di decine di migliaia di schiave del sesso durante la guerra di Corea, ma che gli errori di Asahi avevano incoraggiato il revisionismo storico secondo cui le donne non erano state forzate.
L’accordo, secondo quanto dichiarato dai ministri degli Esteri dei due paesi, dovrebbe chiudere definitivamente la questione. La Corea del Sud finora non aveva mai ritenuto sufficienti le scuse e chiedeva il riconoscimento di una responsabilità legale nella storia dei rapimenti: alla base della sua apertura ci sarebbero questioni di opportunità politica. Corea del Sud e Giappone sono importanti partner commerciali e gli Stati Uniti spingono da tempo affinché le tensioni tra loro vengano risolte, in vista della creazione di un fronte comune geopolitico contro Cina e Corea del Nord. La Corea del Sud ha anche detto che si impegnerà a risolvere la questione di una statua che rappresenta le “schiave del sesso” che si trova di fronte all’ambasciata giapponese nel centro di Seul, dove ogni settimana si svolgono proteste contro il governo di Tokyo. Il Giappone, inoltre, avrebbe preso la sua decisione dopo che un tribunale della Corea del Sud ha assolto un giornalista giapponese accusato di diffamazione e dopo che un altro tribunale si è rifiutato di accogliere il ricorso di un cittadino sudcoreano che chiedeva un risarcimento per il suo reclutamento forzato come lavoratore durante il periodo coloniale da parte del Giappone.