Il terribile video del New York Times che mostra l’uccisione di Farkhunda Malikzada
Racconta con nuovi dettagli il linciaggio di una ragazza afghana di 27 anni accusata di aver bruciato un Corano a Kabul
Il New York Times ha messo insieme e diffuso online un video molto forte e impressionante che mostra alcuni momenti dell’uccisione di Farkhunda Malikzada, una ragazza afghana di 27 anni linciata da una folla a Kabul lo scorso marzo, perché accusata ingiustamente di aver bruciato un Corano. Il video è accompagnato da una lunga inchiesta che ricostruisce la storia di Malikzada e racconta il giorno della sua uccisione, avvenuta in maniera molto violenta: Malikzada è stata picchiata a morte, il suo corpo è stato trascinato da una macchina, lapidato e poi bruciato. Da marzo a oggi sono circolati molti video che mostrano il pestaggio contro Malikzada: quello diffuso oggi dal New York Times – che mette insieme alcuni video già presenti online, alcuni dei quali realizzati dagli assalitori – è in assoluto il più chiaro per capire le circostanze della sua morte.
(attenzione: le immagini sono molto forti)
Dell’omicidio di Malikzada si è parlato in tutto il mondo, sia per la sua violenza che per il successivo controverso processo agli assalitori: a maggio quattro di loro sono stati condannati alla pena di morte, mentre altri otto a sedici anni di prigione. In agosto il caso di Malikzada ha avuto una svolta: la pena dei quattro condannati a morte è stata convertita in 20 anni di prigione. Già a maggio 18 altri accusati erano stati prosciolti. Il New York Times sostiene che diverse persone che hanno partecipato al linciaggio non sono nemmeno state arrestate.
Da capo
Da anni l’Afghanistan è considerato un paese in cui l’Islam radicale è molto diffuso: i talebani, un gruppo estremista islamista che ha controllato il paese dalla metà degli anni Novanta fino all’invasione americana del 2001, godono ancora di buona popolarità in varie zone del paese. Farkhunda Malikzada era musulmana, studiava diritto islamico e lavorava come maestra volontaria. Non è chiaro se soffrisse di problemi mentali, come diversi giornali hanno scritto poco dopo la sua uccisione: uno dei suoi fratelli ha detto al New York Times che i loro genitori sono stati invitati dalla polizia a diffondere la falsa notizia di una sua malattia mentale per far calare la tensione, mentre la polizia e alcune fonti giudiziarie consultate dal New York Times spiegano che soffriva di depressione o di un’altra malattia non meglio specificata.
Il 19 marzo Malikzada è andata al santuario di Shah-Do Shamshira, nel centro di Kabul, perché durante una sua visita alcune settimane prima aveva visto un indovino vendere degli amuleti “magici” ad alcune donne. Quel giorno, racconta il New York Times, ha predicato per ore nel cortile del santuario denunciando i traffici di finti amuleti e invitando i fedeli a pregare altrove. A un certo punto, rivolta all’indovino e al custode del santuario, ha detto: «state plagiando le donne, chiedendo loro soldi per una ragione che non ha a che fare con l’Islam o la religione». Shahla Farid, un membro della commissione che il governo afghano ha creato per occuparsi dell’uccisione di Malikzada, ha raccontato che a quel punto Malikzada potrebbe aver raccolto alcuni di quegli amuleti e averli bruciati dentro a un cestino. La dinamica del fatto non è ancora chiarissima, anche se una successiva indagine del Ministero afghano per gli Affari Religiosi ha chiarito che non esiste alcuna prova che Malikzada abbia bruciato una copia del Corano, come è stato sostenuto da molte persone sul posto.
Gli amuleti venduti dall’indovino si chiamano tawiz: sono dei brevi testi scritti su piccoli pezzi di carta che vengono venduti alle donne spiegando che possono aiutare loro a trovare marito o ad avere figli. Secondo il racconto di Farid, a quel punto il custode del santuario «ha preso i resti bruciati dei fogliettini, ha aggiunto ad essi dei pezzi bruciacchiati di un vecchio Corano e ha mostrato tutto alla gente fuori dalla moschea, per provare che Malikzada aveva bruciato il Corano».
I fedeli presenti alla moschea hanno dato ascolto al custode, e hanno cominciato a insultare e picchiare Malikzada. La scena, mostrata chiaramente dal video del New York Times, mostra decine di uomini tirare calci, pugni e bastonate a Malikzada. A un certo punto viene mostrato l’intervento di alcuni poliziotti che aiutano la ragazza a salire sul tetto di un edificio vicino, per proteggersi dalla folla: si vede però Malikzada perdere l’equilibrio, cadere e venire ripresa dalla folla. Le immagini mostrano i poliziotti restare sul tetto e assistere senza reagire al pestaggio di Malikzada. Dopo averla uccisa di botte, alcuni uomini hanno portato il suo corpo per strada e lo hanno fatto trascinare da un’automobile per circa 100 metri. Poco dopo lo hanno portato su una riva del fiume, dove lo hanno colpito con le pietre e gli hanno dato fuoco. Nel video si vede la polizia afghana che ricompare giusto in tempo per ordinare alle decine di persone presenti sul posto di stare lontano dal fuoco.
Il New York Times fa notare che Malikzada aveva ragione a sospettare dell’indovino e del custode. Secondo una fonte interna alla commissione d’inchiesta governativa, i servizi segreti afghani hanno poi scoperto che l’indovino commerciava illegalmente preservativi e dosi di Viagra, quasi certamente con la complicità del custode del santuario di Shah-Do Shamshira. Farid e alcune fonti interne all’inchiesta sul pestaggio di Malikzada hanno aggiunto che è possibile che l’indovino lavorasse anche come protettore di alcune prostitute.
Quattro giorni dopo la morte di Malikzada, duecento donne hanno protestato a Kabul contro quello che era successo. Nei mesi successivi diversi attivisti hanno criticato duramente il governo, la polizia e il sistema giudiziario afghano per la gestione del caso. La famiglia di Malikzada ha dovuto lasciare l’Afghanistan per paura di rappresaglie nei propri confronti. Oltre ai 12 condannati nel processo principale, 11 poliziotti sono stati condannati a un anno di carcere per non aver difeso a sufficienza Malikzada dalla folla.