I problemi del turismo sull’Everest
La montagna più alta del mondo è anche l'industria più redditizia per il Nepal, ma per il 2016 le prenotazioni sono in calo: c'entrano, tra le altre cose, i gravi incidenti degli ultimi due anni
Negli ultimi mesi il settore turistico delle ascensioni in montagna sull’Everest, uno dei più redditizi del Nepal, è entrato in crisi per ragioni molto diverse: su tutte, due gravi incidenti avvenuti negli ultimi due anni sull’Everest, le crescenti lamentele delle guide indigene sherpa per le loro condizioni di lavoro e un blocco del commercio di carburanti attivo da settimane nei confronti del Nepal dalla vicina India. Il giornalista di Reuters Andrew Macaskill ha contattato le 18 principali società che si occupano di organizzare scalate in cima all’Everest e ha chiesto loro come stanno andando le prenotazioni per il 2016. La risposta è stata che le prenotazioni sono calate di un terzo o anche della metà rispetto al 2015. Macaskill scrive che se questi dati fossero confermati, sarebbe il più grande calo dall’inizio dell’industria turistica dell’Everest, che oggi è la parte più importante del business delle ascensioni in Nepal, che ha un giro di affari da 360 milioni di dollari l’anno.
Nell’aprile del 2014 una valanga ha causato la morte di 16 sherpa, le guide indigene che accompagnano le spedizioni in cima alla montagna. Un anno dopo, nell’aprile del 2015, una seconda valanga causata dal grande terremoto che ha colpito il Nepal ha causato la morte di 22 persone: è stato l’incidente più grave mai avvenuto da quando sono iniziate le scalate commerciali sulla montagna.
Questi incidenti hanno sia spaventato nuovi potenziali scalatori sia mostrato la profonda insoddisfazione degli sherpa, che rischiano la vita accompagnando e facilitando decine di spedizioni occidentali nel corso di una sola stagione turistica in cambio di stipendi spesso molto bassi: nel corso di una stagione di scalate uno sherpa guadagna circa seimila dollari, mentre una guida occidentale fra i 10mila e i 35mila dollari. L’Everest inoltre è un luogo sacro per gli sherpa, che prima di ogni partenza pregano ed eseguono riti propiziatori. Dopo la grave valanga dell’aprile 2015, gli sherpa chiesero di sospendere le ascese alla montagna per rispetto ai morti e protestarono duramente quando scoprirono che gli indennizzi alle famiglie offerti dal governo non bastavano nemmeno a coprire le spese dei funerali.
Ancora oggi gli sherpa si lamentano del fatto che dei 4,1 miliardi di dollari donati al Nepal per la ricostruzione da paesi stranieri, solo una piccola parte sia stata utilizzata per riparare o ricostruire i paesi danneggiati. I danni del terremoto sono stati molto estesi: circa novemila persone sono rimaste uccise tra il Nepal e il nord dell’India. Le infrastrutture hanno subìto gravi danni, rendendo difficoltoso l’accesso non soltanto alla montagna, ma a tutto il paese. Molti degli sherpa sopravvissuti al terremoto hanno perso tutto. «Tutto ciò per cui ho sempre lavorato è stato distrutto in un minuto», ha raccontato a Reuters lo sherpa Phurba Tashi, che ha 44 anni e detiene a pari merito il record per il numero più alto di ascese sulla cima dell’Everest: 21. Il terremoto ha distrutto la sua casa e Tashi è stato costretto a usare tutti i suoi risparmi – circa 20mila euro – e a prenderne in prestito altri 10mila, per ricostruirla. Alcuni di loro che avevano già deciso di ritirarsi hanno dovuto tornare a lavorare come sherpa.
In passato, i disastri sulla montagna hanno fatto poco per scoraggiare i turisti e spesso i rischi della scalata sono stati paradossalmente un incentivo per gli scalatori, spesso ricchi uomini occidentali disposti a pagare decine di migliaia di euro per arrivare in cima. Ma gli ultimi due incidenti sono stati tanto gravi da danneggiare l’industria turistica locale. Garrett Madison, che gestisce un’azienda con sede a Seattle che organizza scalate in Nepal, dice che negli ultimi due anni nessuna delle sue spedizioni è arrivata in cima, e che nel corso delle spedizioni sono morti tre sherpa e un medico. Madison ha spiegato che «ci vorrà del tempo per riguadagnare la fiducia perduta».
Come se non bastasse, anche la situazione politica si è aggravata e ora minaccia la ricca industria delle scalate all’Everest. Lo scorso giugno, il parlamento nepalese ha approvato una nuova Costituzione dopo anni di scontri tra i principali partiti. Gli accordi sono stati considerati un ulteriore e importante passo di riconciliazione nazionale dopo che, nel 2006, una lunga guerra civile tra governo e ribelli comunisti è terminata. Ma la nuova Costituzione ha lasciato insoddisfatte diverse minoranze etniche: in particolari i nepalesi di origine indiana, che vivono nel sud del paese. Il governo indiano, che spesso considera il Nepal poco più che una provincia autonoma dell’India, ha fatto pressioni sul parlamento nepalese perché modificasse la Costituzione in maniera più favorevole alle minoranze, ma senza ottenere grossi risultati. In risposta, dallo scorso settembre, ha iniziato un blocco economico alle frontiere tra il proprio territorio e il sud del Nepal.
Delle circa 300 autocisterne di petrolio di cui il Nepal avrebbe bisogno ogni giorno, oggi ne passano soltanto una decina. Il governo nepalese accusa il governo indiano di aver messo in atto un blocco economico. Gli indiani replicano che il blocco è stato compiuto in maniera autonoma dalla minoranza indiana che abita nel sud del Nepal. Da tre mesi i nepalesi hanno grosse difficoltà a trovare carburante. Sull’Everest manca il carburante per far decollare gli elicotteri di soccorso e per portare gli scalatori fino ai rifugi e agli alberghi alle pendici della montagna. Secondo Reuters in molti hanno rinunciato ai loro viaggi non per timore di arrivare in Nepal, ma di non riuscire poi a raggiungere il monte più alto del mondo.