Il guaio del New York Times su San Bernardino
L'autorevole giornale statunitense ha scritto una cosa falsa – che poi è circolata molto – basandosi su fonti anonime: è stato criticato molto anche dalla sua public editor
Negli ultimi giorni il New York Times ha ricevuto molte critiche per un articolo pubblicato online il 12 dicembre e sulla versione cartacea del giornale il 13 dicembre riguardo Tashfeen Malik e Syed Farook, i due attentatori che hanno sparato al centro dei servizi sociali a San Bernardino, in California, uccidendo 14 persone e ferendone 21.
L’articolo sosteneva che prima dell’attentato Tashfeen Malik avesse appoggiato pubblicamente sui social network «un violento jihad», e accusava gli agenti dell’FBI e altre forze di sicurezza statunitensi di non essersi accorti per tempo dell’esistenza delle minacce. Quattro giorni dopo la pubblicazione dell’articolo, il direttore dell’FBI James B. Comey ha però precisato che Malik aveva parlato del jihad sui social network solo attraverso messaggi privati, cioè quei messaggi che non possono essere controllati dalle autorità a meno di avere specifici mandati. Nei giorni precedenti, altri giornali avevano scritto che Malik aveva parlato del jihad sui social network solo in forma privata. Dopo le dichiarazioni di Comey, il New York Times si è scusato e ha modificato l’articolo originale, ma il caso è stato ripreso da Margaret Sullivan – la public editor del giornale – che ha rivolto nuove accuse molto dure al Times parlando di «un’assenza di sufficiente scetticismo a tutti i livelli, dal processo di scrittura a quello di correzione».
Sullivan ha fatto notare che la notizia dei post pubblici di Malik era basata su fonti anonime – che solitamente hanno meno interesse ad essere accurate e oneste, dato che non vengono citate per nome – descritte vagamente come “funzionari statali”. Su quelle dichiarazioni si basava inoltre l’intero impianto accusatorio degli autori, i giornalisti Matt Apuzzo e Michael S. Schmidt. Prima della correzione l’articolo iniziava così:
Tashfeen Malik, che con suo marito ha compiuto il massacro a San Bernardino, in California, superò tre controlli dei funzionari dell’immigrazione statunitense quando si trasferì dal Pakistan agli Stati Uniti. Nessuno scoprì però quello che Malik aveva fatto, senza peraltro sforzarsi troppo di nascondere: aveva parlato apertamente sui social media della sua visione sul jihad violento. Aveva detto di sostenerlo. E aveva detto di volerne essere parte.
Ora l’articolo contiene una “nota della direzione” in cima e dall’attacco è sparito il riferimento al fatto che i commenti sul jihad di Malik fossero “pubblici”. Erik Wemple, un blogger del Washington Post, ha fatto notare che prima di essere corretta la notizia falsa aveva già fatto in tempo a circolare e fare parecchi danni. La notizia è emersa per esempio durante un dibattito fra i candidati Repubblicani alla presidenza degli Stati Uniti tenuto martedì 15 dicembre: mentre si stava parlando di sicurezza interna, i due candidati Ted Cruz e Carly Fiorina hanno criticato il governo per non aver scoperto le intenzioni di Malik prima dell’attacco. Carly Fiorina, ex CEO di HP e unica donna fra i candidati principali, ha detto: «tutti i genitori americani controllano i social network, così come i dirigenti delle aziende, ma il nostro governo non riesce a farlo».
Sullivan ha scritto che le questioni preoccupanti della vicenda sono due: la rilevanza data dal New York Times a fonti anonime e lo scarso scetticismo dimostrato nei confronti della tesi accusatoria dell’articolo. Sullivan ne ha chiesto conto al direttore del New York Times Dean Baquet, che ha ammesso che il giornale ha commesso «un grosso errore» e ha parlato della necessità di rivedere l’uso delle fonti anonime (in luglio, gli stessi autori dell’articolo su San Bernardino avevano scritto un articolo impreciso su Hillary Clinton basandosi su fonti non citate). Baquet ha anche spiegato come è avvenuto l’errore: le fonti contattate per l’articolo «hanno frainteso il funzionamento dei social network, e noi non abbiamo insistito abbastanza». In pratica, spiega Sullivan, «sembra che le fonti consultate non conoscessero la differenza fra messaggi privati e pubblici sui social network».
Sullivan propone due soluzioni per evitare altri guai del genere: «porre rimedio all’eccessivo utilizzo delle fonti anonime» e «rallentare un po’ nel processo di scrittura e revisione, specialmente nella febbrile atmosfera che circonda una notizia molto grossa».