Ora gli americani prendono sul serio Trump?
Da mesi i media e i suoi avversari si chiedono come bisogna comportarsi, e si scherza sempre meno: la sua proposta di bandire i musulmani ha fatto decidere molta gente
Negli ultimi giorni il dibattito politico sulla campagna per le elezioni presidenziali del 2016 è tornato a concentrarsi estesamente su Donald Trump, il controverso imprenditore americano candidato alla presidenza per i Repubblicani e in testa ai sondaggi di gradimento da diversi mesi. Fin dalle prime fasi della campagna elettorale, Trump ha adottato una strategia che finora sembra avere apparentemente pagato: ogni settimana fa un’uscita molto provocatoria – l’ultima: vietare l’ingresso negli Stati Uniti a tutti i musulmani – per poi ricevere critiche e prese in giro sia dai principali media sia da Democratici e Repubblicani insieme, cosa che gli consente di presentarsi come l’unico vero candidato scomodo, che dice-le-cose-come-stanno.
Fino a poco fa i principali commentatori americani si dicevano convinti del fatto che la candidatura di Trump fosse estemporanea anche sul piano politico – Trump non ha mai avuto alcuna carica pubblica, nemmeno locale – e che si sarebbe sgonfiata più o meno in fretta. Finora per la sua campagna Trump ha poi speso in pubblicità televisive circa l’1 per cento di quello che ha speso Jeb Bush (217mila dollari contro 28,9 milioni), e ha ottenuto l’endorsement di pochissimi altri politici repubblicani. Ad oggi, però, i sondaggi danno Trump ancora molto avanti a livello nazionale sul resto dei candidati Repubblicani, e la sua candidatura è stata in qualche modo legittimata dalle dure critiche che gli sono state rivolte dalla Casa Bianca e da Hillary Clinton, la principale candidata per i Democratici. C’è quindi una domanda che, nonostante venga posta con più o meno convinzione da alcuni mesi, negli ultimi giorni è diventata molto più ricorrente: è davvero ora di prenderlo sul serio?
La scorsa settimana Trump ha avanzato la proposta che finora è stata giudicata la più eclatante del suo scombinato programma: in seguito agli attentati di Parigi lo scorso 13 novembre e a quello di San Bernardino lo scorso 2 dicembre, entrambi compiuti da terroristi islamisti, Trump ha proposto la “totale e completa chiusura delle frontiere” per le persone di religione musulmana, compresi gli americani all’estero che vorrebbero rientrare nel paese. Il primo sondaggio nazionale dopo la proposta ha mostrato che la sua approvazione non ne ha risentito più di tanto, e anzi è rimasta stabile (intorno al 35 per cento degli elettori repubblicani). Nelle settimane precedenti altre simili durissime proposte o uscite di Trump – ha parlato di costruire un muro al confine messicano da mettere in conto allo stesso Messico, e ha preso in giro un giornalista disabile che lo aveva criticato imitando la sua parlata difficoltosa – avevano sortito gli stessi effetti: indignazione e battute dei media e dei politici americani meno noti, silenzio misto a diffidenza dei pezzi grossi – con alcune eccezioni – e aumento dei consensi.
Nelle ultime settimane però le cose sono cambiate. Martedì 8 dicembre, il giorno dopo la proposta di Trump, il portavoce della Casa Bianca Josh Earnest – una delle facce più visibili e associabili alla presidenza Obama, e la persona vicina al presidente che appare più spesso in televisione – ha detto che le parole di Trump lo hanno reso inqualificabile alla presidenza degli Stati Uniti. Non era ancora successo che la Casa Bianca intervenisse così apertamente sulla campagna elettorale in corso, e anche Obama ha fatto un’allusione alle parole di Trump durante un discorso per celebrare i 150 anni dell’abolizione della schiavitù, dicendo: «tradiamo gli sforzi del passato se non riusciamo a respingere l’intolleranza in tutte le sue forme», e aggiungendo che «la nostra libertà è legata alla libertà degli altri, indipendentemente da che aspetto hanno, da dove vengono, da che cognome hanno o da quale fede praticano». Anche Hillary Clinton, la principale candidata democratica alla presidenza che fino ad ora aveva sempre sostenuto di non prendere seriamente Trump, ha detto durante il programma della NBC Late Night with Seth Meyers di non pensare più che Trump sia divertente, e che sia andato «troppo oltre la linea».
Nei primi mesi, le ragioni di questa intensa copertura erano dovute alle sue dichiarazioni spesso sopra le righe e intrise di razzismo, sessismo o complottismo. Nelle prime fasi della sua candidatura, insomma, Trump è riuscito ad occupare il news cycle (“il ciclo delle notizie”), “costringendo” tutti i media a occuparsi di lui. Callum Borchers ha scritto sul Washington Post che spesso è stata proprio l’immagine negativa presentata dai media di Trump che ha rafforzato la sua popolarità, facendolo passare per il candidato anti establishment, “nuovo” e perseguitato. Ma secondo Borchers i media non possono farci niente: se parlano di Trump in positivo lo rafforzano, se ne parlano male anche. Mano a mano che la sua candidatura si è consolidata, intanto, Trump è riuscito ad occupare la scena politica in un altro modo ancora: oltre a proseguire la sua campagna fatta di slogan populisti, ha costretto giornalisti e commentatori già molto critici nei suoi confronti a discutere di come parlare di Donald Trump, finendo di nuovo per parlare di Donald Trump. Il risultato è che si è creato una sorta di circolo vizioso che gli ha permesso di rimanere a galla e anzi ottenere sempre più sostegno.
L’interesse smodato per i media nei suoi confronti – positivo, negativo, neutrale – è testimoniato dai numeri. Una recente analisi di Tyndall Report, che si occupa di monitorare l’informazione televisiva, ha mostrato ad esempio che il programma ABC World News Tonight ha dedicato da gennaio a novembre 81 minuti alla campagna elettorale di Trump, contro un solo minuto per quella di Bernie Sanders, candidato democratico con un consenso tra gli elettori del suo partito più o meno simile a quello di Trump. I minuti totali dedicati a Trump dai programmi di informazione dei canali NBC, CBS e ABC sono stati più di quelli dedicati a tutti i candidati democratici messi insieme.
Qualche esempio. Lo scorso luglio, con una decisione molto commentata l’Huffington Post, uno dei principali siti di news americani, aveva annunciato che avrebbe messo gli articoli su Donald Trump nella sezione dell’intrattenimento, e non in quella politica. Dopo la proposta di Trump di impedire ai musulmani di entrare negli Stati Uniti il giornale ha pubblicato un editoriale della fondatrice Arianna Huffington intitolato “We are no longer entertained”, in cui si spiegava che gli articoli su Trump sarebbero tornati nella sezione politica, perché «come le violente dichiarazioni di oggi rendono abbondantemente chiaro, [la campagna elettorale di Trump] si è anche trasformata in qualcos’altro: in una brutta e pericolosa forza nella politica americana». Il direttore di BuzzFeed Ben Smith ha diffuso su Twitter una mail che ha inviato ai responsabili dei social network del sito in cui ha spiegato che linea tenere su Facebook e su Twitter quando si parla di Trump. Smith scrive che Trump può essere definito un “bugiardo razzista”, spiegando che non si tratta di un’opinione, ma di un fatto.
Sul piano politico, invece, l’opinione più diffusa tra gli osservatori è che Trump stia danneggiando soprattutto il Partito Repubblicano: e infatti alcuni si stanno chiedendo cosa potrebbe succedere se si arrivasse alla convention dei repubblicani – la grande assemblea finale nella quale i delegati dei singoli stati ratificano il risultato delle primarie ufficializzando la candidatura del vincitore delle primarie – senza un candidato chiaro (una situazione che si definisce “brokered convention”, e i fan di West Wing si ricorderanno questa scena). Una delle principali osservazioni fatte negli analisti in questi mesi è stata che gli avversari di Trump nel Partito Repubblicano si sono mostrati molto in difficoltà nel decidere come comportarsi con lui, finendo spesso con l’attaccarlo poco e in maniera blanda, sperando di poter guadagnare i suoi consensi nel momento in cui la sua candidatura si dovesse sgonfiare. In questo modo – ed è anche questo un circolo vizioso – Trump ha goduto di una specie di trattamento di favore da parte degli altri candidati, cosa che lo ha avvantaggiato ad esempio nei dibattiti.
E quindi?
L’opinione più diffusa degli ultimi giorni è che la candidatura di Trump sia stata largamente sottovalutata sia dai media sia dal proprio partito. In questi giorni un editoriale del New York Times ha avvertito i lettori di non fare «l’errore di considerarlo un fenomeno solitario, un eccentrico narcisista famoso che ha in qualche modo, tutto da solo, portato il suo partito e la sua politica sull’orlo del fascismo», sostenendo che la campagna elettorale di Trump abbia già portato «un danno serio al paese e alla sua immagine all’estero»
Anche i suoi avversari nella campagna elettorale repubblicana sono stati accusati di avere aspettato troppo prima di prendere seriamente le distanze da Trump. Ciononostante, c’è ancora abbastanza unanimità nel ritenere che la candidatura di Trump si sgonfierà perché davvero troppo fragile, e che la nomination se la giocheranno gli altri due candidati repubblicani principali, Marco Rubio e Ted Cruz. Di recente ne ha scritto Francesco Costa, che sta raccontando le elezioni americane con una newsletter settimanale:
Da mesi di tanto in tanto pensiamo (me compreso) che Trump a un certo punto l’abbia detta troppo grossa: quando ha insultato John McCain per la sua prigionia in Vietnam, quando ha detto che tutti i messicani sono ladri e stupratori, quando ha irriso un giornalista disabile, eccetera. Eppure non si è mai improvvisamente sgonfiato, e non credo che accadrà. Vuol dire che Trump vincerà le primarie? Continuo a pensare di no. Ma la sua sconfitta non avverrà improvvisamente, dall’oggi al domani, per via di una frase più incendiaria delle altre: non sarà come vedere un palloncino scoppiare. Sarà un processo più lungo, che andrà di pari passo con l’emersione di candidati più credibili di lui, e potrebbe richiedere ancora settimane se non mesi: e continuo a pensare che quel processo sia già iniziato.
Sì, circola qualche sondaggio nazionale che mostra il suo gradimento crescere dopo l’ultima proposta. Ma i sondaggi nazionali valgono pochissimo (le primarie si tengono stato per stato) e fatti a questo punto della campagna storicamente valgono ancora meno. E poi tenete conto di una cosa: persino nel suo momento migliore, Trump non ha mai avuto nei sondaggi più del 35 per cento delle preferenze nazionali. Più o meno come Sanders tra i Democratici nel suo momento migliore, mentre resta con almeno 20 punti di svantaggio su Clinton. La stragrande maggioranza degli elettori Repubblicaninon preferisce Trump. La frammentazione dei candidati Repubblicani lo ha avvantaggiato, ma non durerà in eterno.