Come nascono i vaccini
Da un uovo, come ogni cosa: viaggio in uno stabilimento che li produce, a Liverpool, e racconto di come evitiamo l'influenza
di Emanuele Menietti – @emenietti
Tutto inizia da un uovo, da milioni di uova. L’operatore scarica dal camion uno dei carrelli che ne contengono migliaia, con cautela lo trasporta all’interno del magazzino dove sono conservati i nuovi arrivi. È una mattina tranquilla nella periferia di Liverpool, il vento ha spazzato via le nuvole, l’atmosfera pulita e pungente di metà novembre ricorda che sta arrivando la stagione fredda: per mesi milioni di persone al di sopra dell’equatore si rintaneranno al chiuso ogni volta che potranno. Se ne staranno gomito a gomito per ore negli uffici, stipati faccia a faccia su treni e autobus, a bere qualcosa in locali troppo piccoli e affollati, respirando la stessa aria viziatissima. Si scambieranno idee, opinioni, aneddoti interessanti, altri noiosi: e senza rendersene conto, una quantità enorme di virus. Quello dell’influenza vincerà su tutti gli altri, sarà praticamente ovunque, si diffonderà velocemente infettando centinaia di milioni di persone in una manciata di mesi.
È per questo che le uova nel camion sono importanti.
Camion, carrello di uova, rampa, stanzone, ritorno, stesso camion, altro carrello. L’addetto continua a portare le uova nel magazzino, ogni vassoio è contrassegnato con numeri e lettere che indicano il giorno di arrivo allo stabilimento e il loro luogo di origine. Sono state prodotte da galline che vivono in pollai giganteschi nel Regno Unito, insieme a un’orda di galli contenti della loro compagnia. I capannoni sono isolati dal resto del mondo e la salute degli animali è controllata periodicamente dai veterinari, che provvedono anche a vaccinarli. Ogni mattina le galline depositano le loro uova fecondate, che vengono raccolte, messe sui carrelli e trasferite dal pollaio allo stabilimento di Liverpool.
Al “Site 4” dove si trattano le uova per produrre i vaccini sono giorni più complicati del solito: la proprietà dello stabilimento è cambiata e ci sono molte cose da sistemare, compresi i pannelli con il logo della nuova società. Novartis, la grande multinazionale che possedeva lo stabilimento, ha ceduto la sua divisione dei vaccini influenzali a CSL, una società di biotecnologie australiana, che a sua volta l’ha costituita in un’azienda controllata che si chiama Seqirus. Novartis si legge come si scrive, per il nuovo marchio è un po’ più complicato: si pronuncia quasi come Shakira, “sechìras”. Il cambiamento del marchio e dell’organizzazione interna della società è avvenuto in corsa, senza che fosse necessario fermare la produzione: l’installazione di un’insegna con il nuovo logo può attendere, i paesi che acquistano ogni anno milioni di dosi di vaccini no.
Le uova restano al freddo nel magazzino per un paio di giorni al massimo, poi altri addetti spostano i carrelli nell’area di lavaggio dove sono rimosse sporcizia e impurità dai gusci, utilizzando macchine che spruzzano acqua clorata, come quella che si trova nelle piscine e che a volte fa bruciare gli occhi. Il processo è automatizzato: la macchina preleva dal carrello – una sorta di scaffale su ruote – un vassoio con oltre cento uova, le fa passare sotto il getto di acqua e al termine dispone il vassoio su un nuovo carrello. Le uova fecondate sembrano quasi lucidate e sono trasferite in una delle decine di incubatrici dello stabilimento, che in un certo senso può essere considerato un’enorme gallina.
L’enorme gallina è una sauna che riproduce le condizioni della cova: l’aria è riscaldata a 37 °C ed è molto umida. Ogni carrello è collegato a una staffa che, come una premurosa chioccia, fa inclinare periodicamente i vassoi che contengono le uova, in modo che le sostanze contenute al loro interno siano ben distribuite e accessibili per la moltiplicazione cellulare. Ci vogliono in media 21 giorni perché un uovo fecondato diventi un pulcino: dopo i primi 11 l’embrione ha assunto una forma riconoscibile, il becco inizia a solidificarsi e si sviluppa il piumaggio. Ed è a questo punto che la chioccia automatica si rivela meno chioccia: smette di scaldare le uova e segnala agli operatori che è tempo di portarle via.
I carrelli sono trasportati all’esterno dell’incubatrice in una stanza dove fa più freddo, per impedire agli embrioni di continuare a svilupparsi. A una decina di giorni dal loro arrivo un macchinario verifica l’effettiva presenza di un embrione vitale all’interno di ogni uovo, scartando quelle in cui non se ne è sviluppato uno. La macchina è accurata, ma per ulteriore sicurezza le uova sono controllate a campione una seconda volta da un’operatrice, che le guarda in controluce con il metodo della “speratura”. Un manubrio con quattro ventose e una lampadina al loro interno viene fatto aderire ai gusci di altrettante uova: la luce illumina il loro interno e si può notare la presenza degli embrioni e di eventuali crepe sul guscio.
Angela, l’operatrice di turno in questo momento, lavora in una stanzetta al buio dove le vengono portati i vassoi con le uova da controllare. È velocissima e non può permettersi distrazioni: da lei dipende la segnalazione di qualsiasi anomalia nel funzionamento della macchina. Periodicamente, Angela fa un test della vista e deve superare una prova in cui le viene richiesto di identificare nel minor tempo possibile le uova con difetti messe in un vassoio. Deve trovarle tutte e se fallisce viene assegnata a un corso di aggiornamento sulla speratura. Se milioni di persone non prendono l’influenza ogni anno è anche merito suo e delle sue lampadine con la ventosa.
Un po’ per caso, un po’ perché un tempo molte persone passavano una vita a contatto con loro, la storia dei vaccini è strettamente legata agli animali da fattoria. Prendete il primo vaccino efficace mai sviluppato, per esempio: fu realizzato nel 1798 da Edward Jenner, un abile medico britannico che aveva notato che le donne mungitrici guarite dal vaiolo bovino non sviluppavano l’altra forma di vaiolo, molto più grave e mortale. Jenner capì che, proprio in virtù del contagio con una versione della malattia meno aggressiva (all’epoca non si sapeva nulla dei virus), le mungitrici erano diventate immuni. Sperimentò la sua teoria su James Phipps, un bambino di 8 anni figlio del suo giardiniere: infettò il malcapitato con del pus ottenuto dalle lesioni di una mungitrice che aveva contratto il vaiolo bovino. Phipps, come previsto, si ammalò e nel giro di pochi giorni guarì perché la malattia era poco aggressiva. Due mesi dopo, Jenner infettò nuovamente il ragazzino, questa volta con materiale proveniente da una persona malata del ben più pericoloso vaiolo: Phipps non si ammalò, confermando la teoria di Jenner sull’immunizzazione. La sua scoperta, due secoli dopo, avrebbe portato alla completa eradicazione del vaiolo, un risultato storico.
Jenner è raramente ricordato, ma si deve a lui la parola stessa con cui definiamo i trattamenti che permettono di renderci immuni da particolari malattie. “Vaccino” deriva da “Variolae vaccinae”, cioè “vaiolo della mucca”, locuzione che il medico britannico introdusse nel trattato che pubblicò sul tema. Nel 1881 il biologo francese Louis Pasteur, il fondatore della moderna microbiologia e pioniere nello studio degli agenti che oggi chiamiamo virus, propose di utilizzare la parola “vaccino” per definire le inoculazioni in generale e non solo quella del vaiolo.
Lasciate le attenzioni di Angela, le uova di Liverpool sono pronte per il grande passo: l’incontro con il virus. Il passaggio non è solo simbolico: per accedere all’area in cui sono trattati i virus, centinaia di migliaia di uova devono attraversare la strada che separa i capannoni dello stabilimento. Un furgoncino fa la spola da un capo all’altro della strada trasportando le uova e, anche durante il viaggio, la temperatura è tenuta sotto controllo per evitare che gli embrioni riprendano a svilupparsi.
Se nell’area di incubazione la protezione dall’ambiente esterno è il guscio delle uova stesse, e non sono quindi necessarie grandi precauzioni contro le contaminazioni, al di là della strada le cose sono molto più complicate: i gusci saranno forati per iniettare il virus all’interno, e di conseguenza l’ambiente deve essere molto più pulito e isolato. Le uova, sugli inseparabili vassoi che per 11 giorni le hanno tenute in posizione, passano all’interno di un macchinario che fora i gusci e inietta il virus dell’influenza nella cavità allantoidea, in cui è contenuto il liquido allantoideo, che tra le altre cose fornisce parte del nutrimento all’embrione. Le uova infettate tornano al caldo, in una stanza a 37 gradi dove restano per tre giorni: la temperatura fa riprendere lo sviluppo dell’embrione e crea l’ambiente ideale per i virus dell’influenza, che iniziano a moltiplicarsi freneticamente nell’uovo.
Nella divisione 86 del Père Lachaise, il famoso cimitero monumentale di Parigi, c’è una lapide a forma di menhir progettata da Pablo Picasso per l’amico Guillaume Apollinaire, poeta. Sulla pietra è stato scolpito l’epitaffio “Il mio cuore simile a una fiamma rovesciata”, uno dei calligrammi composti da Apollinaire, morto il 9 novembre del 1918 (ma forse qualche giorno prima) a causa dell’influenza spagnola, la più grave pandemia nella storia dell’umanità. Non si sa di preciso quante furono le persone come Apollinaire a morire di spagnola tra il 1918 e il 1920, le stime più ottimistiche parlano di 20 milioni di persone, quelle più gravi di almeno 100 milioni.
La spagnola fu un disastro, soprattutto per le nazioni europee alle prese con le conseguenze della Prima guerra mondiale. Per fermare l’influenza i medici provarono qualsiasi cosa – dai salassi alle trasfusioni di sangue da pazienti che erano guariti – ottenendo scarsi risultati. La malattia era molto contagiosa, più della classica influenza stagionale, e portava sintomi gravi che venivano confusi con quelli di altre malattie. La pandemia stimolò una nuova e ampia serie di ricerche sull’influenza e sulle sue cause, che ebbe una notevole svolta nei primi anni Trenta quando si iniziarono a comprendere meglio le caratteristiche dei virus.
A differenza dei batteri, microrganismi composti da una sola cellula e di solito visibili con microscopi ottici poco potenti o rudimentali, i virus sono tipi strani, minuscoli e infidi. Quando sono all’esterno degli organismi che infettano, hanno la forma di semplici particelle indipendenti (virioni), al cui interno ci sono molecole di materiale genetico protette da un rivestimento proteico e talvolta da una piccola sacca di grassi. La comunità scientifica è divisa tra chi ritiene che debbano essere considerati esseri viventi perché portano con loro del DNA e chi invece li ritiene non vitali. Comunque sia, quando entrano in contatto per la prima volta con l’organismo da infettare, riescono a cogliere di sorpresa il suo sistema immunitario, a legarsi alle membrane delle sue cellule e a colonizzarne l’interno modificando il loro codice genetico, moltiplicandosi molto rapidamente.
Nel caso degli animali, questa infezione virale provoca una risposta immunitaria, che quando tutto va bene permette di sbarazzarsi del virus. A seconda del tipo e della gravità dell’infezione virale, l’organismo reagisce in modi piuttosto drastici con anticorpi che isolano i virus e distruggono le cellule infette. Mentre si consuma questa battaglia che coinvolge milioni di cellule, l’organismo infettato – ovvero noi da malati, in pratica – è alla prese con vari tipi di sintomi. Non sempre riesce a eliminare completamente il virus o a imparare a riconoscerlo le volte seguenti per impedirgli l’accesso alle sue cellule: in questo caso si creano infezioni croniche, come quella dell’HIV. Il sistema immunitario può essere istruito a riconoscere e a ostacolare un virus (o un batterio) con un vaccino: iniettando una versione depotenziata del virus, l’organismo sviluppa le capacità necessarie per tenerlo sotto controllo ed evitare che causi la malattia nelle future esposizioni all’agente infettivo completo vero e proprio.
Questo meccanismo, che ora appare intuitivo alla maggior parte di noi e che viene insegnato a scuola, richiese moltissimo tempo prima di essere compreso in buona parte delle sue implicazioni, ma ciò non impedì di produrre vaccini di vario tipo già a partire dal XIX secolo, basandosi sugli studi seguiti alle scoperte di Jenner. Furono creati vaccini contro i batteri e i virus responsabili di malattie come colera, rabbia, tetano, peste e tubercolosi. Uno dei virus responsabili dell’influenza fu identificato per la prima volta da un essere umano nel 1933 nel Regno Unito, dopo anni in cui si era ipotizzato che la malattia avesse una causa batterica e non virale. Fu scoperto contagiando alcuni furetti in laboratorio con saliva e muco prelevati da una persona malata: le cavie si ammalarono. Si scopri che si trattava di un virus per via indiretta: passava attraverso i filtri (cosa che non fanno i batteri), era invisibile e non poteva essere coltivato, eppure causava una malattia. Oggi le cose sono relativamente più semplici, potendo osservare direttamente i virus con i microscopi elettronici.
Il primo vaccino influenzale fu sperimentato nel 1936 nell’Unione Sovietica, iniettando una versione attenuata ma vitale del virus: funzionò abbastanza bene, ma il preparato non era stabile e in breve tempo recuperava la normale virulenza, diventando quindi più pericoloso. Era necessario seguire una strada diversa: rendere inattivo il virus nel vaccino, mantenendo al tempo stesso le caratteristiche che servono al sistema immunitario per imparare a riconoscerlo. L’inizio della Seconda guerra mondiale accelerò molto la ricerca, soprattutto negli Stati Uniti: memori di come erano andate le cose con l’influenza spagnola alla fine del precedente conflitto, si decise di rendere prioritaria la creazione di un nuovo vaccino inattivato contro l’influenza per i soldati.
“Inattivato” vuole dire che il virus al suo interno è stato trattato con formaldeide, agenti chimici o modificando il suo codice genetico in modo che non possa più replicarsi. Questa soluzione ha il vantaggio di rendere il preparato molto più stabile, ma rende necessario l’utilizzo di quantità più alte di virus inattivati per dose, perché questi da soli non sono in grado di replicarsi nell’organismo in cui vengono iniettati, e se sono pochi non portano a un’adeguata risposta immunitaria. Ed è qui che entrano in gioco le uova: il sistema per fare replicare i virus negli embrioni dentro al guscio è economico e permette di essere effettuato su grande scala in tempi piuttosto rapidi (ne esiste un altro per moltiplicazione cellulare). Questa tecnica fu sviluppata principalmente dall’immunologo australiano Frank Macfarlane Burnet tra gli anni Trenta e i primi Quaranta e, con le opportune migliorie, è seguita ancora oggi dai principali produttori di vaccini al mondo, come Seqirus a Liverpool.
Prevedere quali saranno i virus più diffusi ogni anno durante la stagione fredda è importante quanto preparare con accuratezza i vaccini. Esistono tre tipi di virus influenzali conosciuti: Influenzavirus A, Influenzavirus B e Influenzavirus C. Il primo e il terzo infettano molte specie diverse, mentre il B è quasi un’esclusiva degli umani. Di solito sono A e B a farci ammalare stagionalmente: le mutazioni genetiche cui vanno incontro periodicamente fanno sì che possano eludere il sistema immunitario e attecchire nelle cellule. Se vuoi fermarli devi quindi prevedere quali ceppi del virus saranno più diffusi nella nuova stagione fredda. Questo compito spetta agli esperti dell’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) e ai suoi laboratori di rilevazione, in oltre 100 paesi del mondo: su base statistica, e valutando come sono andate le cose nell’altro emisfero dove le stagioni sono speculari, identificano la ricetta dei vaccini da produrre e la consigliano alle aziende che li producono. Di solito si tratta di un vaccino trivalente, valido cioè contro tre virus. I virus ricercati per il 2015 – 2016 si chiamano: A/California/7/2009 (H1N1)pdm09; A/Switzerland/9715293/2013 (H3N2) e B/Phuket/3073/2013.
Per quanto le rilevazioni sui casi in giro per il mondo siano accurate, può succedere che l’OMS sbagli parte della previsione, anche a causa di ulteriori mutazioni dei virus influenzali. Le statistiche sono inoltre basate sui sintomi dei pazienti (“influenza-like illness”), che possono non essere dovuti all’influenza e falsare le analisi statistiche. Quando succede, la protezione del vaccino è inferiore e quindi si riscontra un aumento dei casi di influenza durante la stagione invernale. Diversi studi hanno comunque evidenziato come una versione del vaccino con un adiuvante offra una buona copertura anche nei casi in cui i virus presentano mutazioni non previste.
Sono passati tre giorni da quando le uova sono tornate al caldo nelle grandi incubatrici dello stabilimento: gli embrioni hanno ripreso a crescere e il virus ha sfruttato le loro risorse per continuare a replicarsi. Una zaffata di aria calda e umida investe l’operatore che si appresta a spostare i carrelli per il loro ultimo viaggio in compagnia del prezioso carico. Dispone i vassoi davanti a un macchinario che rompe i gusci e preleva il contenuto nella cavità allantoidea, circa 10 millilitri di liquido. L’operazione viene svolta migliaia di volte e porta a raccogliere decine di litri di prodotto che costituiranno la base per un lotto di produzione. Da questo momento in poi le procedure già severe per monitorare la creazione del vaccino diventano rigidissime: il trasporto del prodotto, l’aggiunta dei composti chimici per inattivarlo e ripulirlo, la separazione degli scarti, tutto deve avvenire seguendo un flusso di lavoro rodato e che non preveda eccezioni.
Gli ambienti in cui il vaccino viene completato ricordano quelli delle sale operatorie degli ospedali, sembrano le cliniche all’avanguardia dei film dove i supereroi acquisiscono i loro poteri. Per entrarci devi infilarti una tutona sopra i vestiti, che ricorda più il pigiama di Super Pippo che la divisa di Superman, inforcare occhiali protettivi, mettere una cuffia per coprire i capelli, una cuffietta per coprire i peli della barba (anche se ne hai poca) e devi per forza usare scarpe che non abbiano avuto contatti con l’esterno. Gli impiegati hanno imparato a fare in fretta la cerimonia della vestizione, un paio di minuti al massimo, ma per gli ospiti è sempre complicato, ti spiegano mentre cerchi di non ribaltarti infilando la tuta. Passarsi il disinfettante sulle mani prima di entrare diventa a quel punto la cosa più facile al mondo.
L’accesso agli ambienti dove viene ripulito il vaccino è attraverso una piccola stanza di compensazione, come in un’astronave: devi chiudere la porta dietro di te prima di aprire quella che dà sull’altra parte. Oltre la porta, la pressione interna è lievemente diversa da quella dello spogliatoio, in modo da formare una sorta di barriera contro l’ingresso della polvere e di altri contaminanti. Per ulteriore precauzione, le stanze dove avviene il trattamento vero e proprio del vaccino sono circondate da un corridoio, all’interno del quale ci si può muovere più facilmente senza il timore di urtare qualche macchinario. Se non hai un tesserino magnetico con le dovute autorizzazioni, non entri. Se non segni il tuo nome sul registro degli ingressi – una serie di fogli tenuti insieme da una pinza su cui scrivere a biro, non entri.
Il liquido, che per progressive purificazioni diventerà il vaccino, viaggia all’interno di tubi che mettono in comunicazione tra loro diverse centrifughe. Il suo passaggio è regolato da un sistema computerizzato, che dirige il traffico aprendo e chiudendo le valvole nelle tubature, il prodotto non deve mai avere contatti fuori dal circuito. Nelle centrifughe, una specie di enormi frullatori, il futuro vaccino passa ore a girare vorticosamente a diverse temperature, con l’aggiunta di composti chimici che lo ripuliscono dalle impurità. I primi lavaggi eliminano tracce di sangue degli embrioni, eventuali frammenti di guscio e delle membrane interne delle uova. Nei passaggi seguenti, la purificazione è più minuziosa e porta al prodotto finito.
Il 70 per cento del lavoro riguarda la verifica dei processi, che costituiscono invece il 30 per cento delle attività lì dentro. In un angolo di un magazzino una tanica vuota abbandonata su un carrello è un impietoso promemoria di come devono funzionare le cose: aveva una minuscola intaccatura sulla sua superficie, di quelle che se non ti dicono dove guardare non la troveresti mai. Una possibile perdita significa una probabile contaminazione del prodotto: per ridurre al minimo i rischi il lotto contenuto in quella tanica è stato scartato, una perdita nell’ordine di alcune centinaia di migliaia di euro.
Le attenzioni e le cure degli operatori non sarebbero sufficienti. Ogni singolo trattamento, l’aggiunta dei composti chimici, i tipi di interventi effettuati, in pratica qualsiasi cosa accada è registrata da un sistema informatico, che manterrà per anni traccia di ogni tappa del processo. Per chi produce i vaccini è una garanzia essenziale, nel caso si sospetti che qualcosa sia andato storto. A differenza dei comuni farmaci, un vaccino viene somministrato a una persona che sta bene, a maggior ragione non possono esserci rischi. Soprattutto dopo episodi come quello italiano del 2014 quando per giorni i giornali amplificarono un allarme poi rivelatosi infondato su alcuni dei lotti prodotti.
Il 27 novembre 2014 l’Agenzia Italiana del Farmaco (AIFA), dispose il divieto di utilizzo di due lotti del vaccino influenzale FLUAD di Novartis. La sospensione fu a scopo precauzionale in seguito alla segnalazione ai suoi responsabili di 11 morti sospette per “eventi gravi avversi o fatali”, che si erano verificati entro 48 ore dalla somministrazione del vaccino. La notizia fu ripresa per giorni dai media italiani, con titoli e toni molto allarmanti e conclusioni premature e senza basi scientifiche, mentre ancora l’Istituto Superiore di Sanità stava verificando se ci fosse effettivamente qualche legame tra le vaccinazioni e le morti segnalate.
Per fare ulteriore chiarezza, e tutelarsi, Novartis avviò in poche ore i controlli sui due lotti per capire se fosse andato storto qualcosa. Grazie al sistema informatico che registra ogni singolo passaggio della produzione, fu possibile ricostruire a ritroso tutte le procedure seguite per creare il vaccino, risalendo fino al megapollaio dove le galline avevano deposto le loro uova utilizzate poi per coltivare i virus influenzali negli embrioni. I dati furono controllati più volte e in modi diversi: era tutto regolare. Mentre alcuni giornali titolavano “incubo vaccino”, “muoiono dopo il vaccino”, “allarme vaccini”, “iniezione letale”, l’azienda aveva emesso un comunicato stampa per confermare di non avere riscontrato nulla di anomalo e di stare collaborando con le istituzioni mediche italiane.
Tra la fine di novembre e l’inizio di dicembre 2014 ci furono sequestri presso le ASL, e circolarono di continuo notizie di nuove morti sospette, che si scoprì poi non c’entravano nulla con i vaccini influenzali. I primi esami effettuati dall’Istituto Superiore di Sanità dimostrarono che i due lotti non avevano subìto contaminazioni: dopo giorni di prime pagine allarmistiche, la spiegazione fu praticamente ignorata dai giornali. A fine anno i test dell’Istituto Superiore di Sanità dimostrarono che i due lotti di vaccino sospetti erano “conformi ai parametri attesi”, confermando quindi la loro sicurezza. Nelle settimane seguenti le autopsie su alcuni dei corpi delle morti sospette diedero gli esiti attesi: le persone coinvolte erano morte per cause diverse e indipendenti dalla vaccinazione influenzale.
È praticamente impossibile stimare quale sia stato l’effettivo impatto dell’allarmismo dei media italiani sulla campagna di somministrazione dei vaccini tra il 2014 e il 2015. Grazie alle segnalazioni delle autorità sanitarie sappiamo comunque che di influenza stagionale sono morte 160 persone, il più alto numero di casi dal 2010 – 2011. L’Istituto Superiore di Sanità ha stimato un 20 per cento di vaccinazioni in meno nel 2014 – 2015 rispetto alla campagna di vaccinazioni del biennio precedente, pari a 2 milioni di vaccinazioni in meno. In Italia l’influenza è la terza causa di morte per malattia infettiva, dopo l’AIDS e la turbercolosi, per questo la vaccinazione è raccomandata dal ministero della Salute e dalle altre autorità sanitarie, soprattutto per le persone che hanno già altre malattie e quindi sono più a rischio e per le persone con più di 65 anni di età. Il vaccino dà una buona protezione e secondo l’Organizzazione Mondiale della Sanità ogni paese dovrebbe aumentare sensibilmente le proprie coperture per ridurre i casi di influenza, le loro conseguenze sulle persone a salute più fragile e il costo sociale che comportano milioni di persone da curare.
Per ore le centrifughe nello stabilimento di Liverpool miscelano il futuro vaccino per purificarlo, poi viene lasciato decantare in modo che i composti chimici si separino per gravità: hanno una densità diversa rispetto a quella della soluzione che contiene i virus inattivati, quindi si comportano come l’olio quando galleggia sull’acqua. Rimossi i composti per la purificazione, restano i litri di vaccino che costituiranno uno delle migliaia di lotti che l’azienda manda in giro per il mondo. Con molta cura, i recipienti vengono trasportati in un altro stabilimento a qualche chilometro dal sito di produzione, dove saranno collegati a un macchinario che riempie le fiale con una dose. A un paio di settimane dalla posa delle uova da parte di schiere di inconsapevoli galline, il vaccino è pronto per avere a che fare con milioni di sistemi immunitari.