Resteremo senza banane?
È possibile: non sappiamo ancora come fermare il fungo che sta facendo fuori la varietà di banane che rappresenta il 99 per cento del mercato mondiale
di Roberto A. Ferdman
A metà Novecento la varietà più popolare di banana – una qualità dolce e cremosa chiamata Gros Michel nell’America Latina – era onnipresente nel pianeta. All’epoca era l’unica banana che poteva essere esportata. Un fungo che portava alla cosiddetta “malattia di Panama”, identificata per la prima volta in Australia a fine Ottocento, cambiò le cose dopo essere passato da un continente all’altro. La malattia indebolì le piante di questo frutto, causando un danno così grande da portare quasi all’estinzione la Gros Michel in pochi decenni. Mezzo secolo dopo, un nuovo ceppo della stessa malattia minaccia l’esistenza della Cavendish, la banana che ha rimpiazzato la Gros Michel diventando la più esportata, e che oggi rappresenta il 99 per cento del mercato mondiale, insieme a banane di altre varietà prodotte e consumate a livello locale.
Il nuovo fungo è comparso negli anni Novanta in Asia e l’anno scorso ha cominciato ad attaccare alcune piantagioni in Africa. Un anno fa sembrava che l’epidemia si stesse diffondendo lentamente e che potesse essere contenuta, ma oggi è diventato chiaro che non ci sono le conoscenze per fermarla e che gli agricoltori non hanno idea di come contenerla. Almeno questa è la conclusione di un nuovo studio pubblicato sulla rivista scientifica PLOS Pathogens, che ha confermato un timore diffuso tra i ricercatori. I banani in giro per il mondo stanno morendo a causa della stessa identica cosa: una mutazione più potente della malattia di Panama nota come “razza tropicale 4”. Il fungo, che iniziò a fare danni nel Sudest asiatico 50 anni fa e che ora ha iniziato a causarne in Asia, Africa, Medio Oriente e Australia, potrebbe arrivare anche in Sudamerica – dicono i ricercatori – dove viene coltivata la maggior parte delle banane consumate in tutto il mondo. A questo punto non è più questione di se, in realtà, ma di quando.
La malattia è pericolosa perché il modo in cui da oltre un secolo coltiviamo le banane le rende particolarmente esposte ai parassiti come i funghi. Decine di specie diverse di banane sono coltivate in tutto il mondo, ma quelle destinate al mercato delle esportazioni appartengono tutte alla stessa specie, un metodo chiamato “monocoltura” e che prevede di coltivare in un determinato spazio un’unica specie di pianta. Nel caso delle banane destinate alle esportazioni, la situazione è ancora più complicata perché le banane non appartengono soltanto alla stessa specie, ma sono cloni le une delle altre. Come le Gros Michel, che hanno sostituito, anche le Cavendish non hanno semi. Come si fa quindi, a creare da una singola pianta un’intera piantagione? Semplice: si taglia un pezzo del banano, lo si pianta in terra e in poco tempo questo diventerà un nuovo albero di banane, con un patrimonio genetico identico a quella della pianta originaria.
In questo modo le piante producono frutti simili per peso e dimensioni e con le stesse proprietà organolettiche. È un sistema grazie al quale i grandi produttori di banane riescono a ottimizzare il lavoro e risparmiare un sacco di soldi. Utilizzare milioni di cloni della stessa pianta, però, ha anche risvolti negativi. Per esempio una volta che un parassita – come un fungo – si evolve in modo da riuscire a intrufolarsi dentro una di queste piante, ottiene automaticamente l’abilità di intrufolarsi anche in tutte le altre. Non solo: una volta iniziata l’epidemia, per gli agricoltori sarà quasi impossibile trovare tra milioni di piante identiche una che abbia sviluppato una resistenza al parassita.
Qualcosa di simile è già accaduto in passato e le conseguenze furono terribili. L’Irlanda dell’Ottocento era uno dei paesi più poveri d’Europa e la dieta dei suoi abitanti consisteva soprattutto di patate. Nel tentativo di ottimizzare le colture, gli irlandesi piantarono quasi esclusivamente una singola varietà di tuberi in tutta l’isola. Quando un fungo cominciò ad attaccare proprio quella specie di patate, l’intera produzione agricola dell’isola venne persa e nel 1846 centinaia di migliaia di persone morirono di fame. Con conseguenze fortunatamente meno gravi, è lo stesso fenomeno iniziato con le banane nei primi anni del Novecento e terminato soltanto quando le Gros Michel furono spazzate via dalla malattia di Panama. Il giornalista Gwynn Guilford raccontò così questa storia in un articolo pubblicato su Quartz l’anno scorso:
«Mentre intere piantagioni venivano spazzate via, la United Fruit e altre società fecero una scelta ovvia: spostarono le loro piantagioni in un altro paese del Sud America. Ma la malattia li seguiva ovunque andassero. Dopo aver spazzato via le piantagioni in Costa Rica e a Panama, l’epidemia seguì la United Fruit in Guatemala, Nicaragua, Colombia ed Ecuador. Nel 1960, 77 anni dopo la sua apparizione, la malattia di Panama aveva spazzato via la Gros Michel da tutte le piantagioni del pianeta»
Gli effetti dell’epidemia si sentirono in tutto il mondo: negli Stati Uniti ispirarono negli anni Venti una canzone dall’eloquente titolo “Sì, non abbiamo banane”.
L’ultima mutazione del fungo rischia di mettere a rischio ancora una volta le monocolture di banane. Forse in futuro gli scienziati riusciranno a creare una nuova specie di banana altrettanto buona e resistente al fungo, ma la realtà è che al momento non esiste nulla in grado di resistere al fungo e che sia al contempo economicamente sfruttabile. Quando il fungo arriverà in Sud America sarà solo questione di qualche decennio prima che la più popolare delle banane sparisca ancora una volta. L’ironia è che la Cavendish è diventata la banana più venduta al mondo soltanto perché era resistente alla malattia di Panama. Tutte le sue altre caratteristiche erano considerate inferiori a quelle della Gros Michel, che stava venendo spazzata via: è meno saporita, dura di meno e non è facile da aprire. Ora che sembra che anche la Cavendish sia destinata a fare la stessa fine – manca ancora molto tempo, è inutile fare scorte – sta diventando chiaro che il problema non era il tipo di banana, ma il metodo di coltivarle.
© Washington Post 2015