Tim Berners-Lee, che ha cambiato le vite
Com'è fatto l'uomo che ha inventato tutto questo – tutto questo – e come sarebbe andata senza di lui
di Luca Sofri
C’è qualcuno, una persona vivente, al mondo, che ha cambiato le vite di tutti? Che se non ci fosse stato lui oggi vivremmo diversamente?
Probabilmente tendiamo a pensare di no, facciamo un giro mentale dei nomi conosciuti, e sì, ci sono persone importanti, o che tutti conoscono, o che hanno avuto grosse influenze in determinati campi, o che hanno fatto cose con estese implicazioni. Ma se non ci fossero state, avremmo vissuto in altro modo, tutti? Facciamo il giro dei nomi conosciuti e probabilmente ci rispondiamo di no.
È un pomeriggio milanese di luce invernale, nitida e bianca, che entra dalle grandi vetrate di questi loft postindustriali alla periferia nord della città. Tutto molto nudo e bianco, come da estetica di startup e aziende di comunicazione. Luminoso. Sono seduto su una sedia bianca a un tavolo bianco appoggiato su un pavimento bianco, e ho davanti a me una persona che se non ci fosse stata, probabilmente vivremmo in un altro modo. Se non tutti, tanti. O tutti noi, quelli che vivono come noi in queste parti di mondo.
E non è un nome conosciuto, in effetti: cioè, lo è molto in certi uffici bianchi e luminosi di startup, nei posti dove si vive il cambiamento di queste parti di mondo, tra le persone che seguono il cambiamento e che sono informate su cosa ci sia dietro certe formule come “http” o che sanno dire senza esitazioni perché “internet” e “il web” siano due cose diverse. Dovessi tirare a indovinare, un italiano su cento sa chi sia Tim Berners-Lee. Degli altri 99, dicono le statistiche, 50 hanno a che fare direttamente con la cosa che ha inventato lui, il world wide web. Gli altri 49, indirettamente, direi.
Il “web”, più estesamente “il world wide web”, è per molti che lo usano una condizione naturale, data per scontata. Come la lingua che parliamo, come le strade su cui ci muoviamo, come ci si alza la mattina e fuori c’è la luce, e si accende il computer e ci sono i siti, tutti raggiungibili e accessibili, tutti allo stesso modo e con meccanismi semplici e familiari, liberi. Sono venuti da sé, pensiamo, una volta creata internet facendo passare dei dati dalle linee del telefono.
Invece non era scontato per niente: azzardando un paragone riduttivo, in termini di efficacia e usabilità il web sta a internet come le strade alla ruota.
TBL, come spesso lo chiamano i più riconoscenti, cominciò a progettare e creare nel 1989 questo oggi enorme sistema che diamo per scontato: aveva 34 anni, aveva studiato fisica, lavorava al CERN. Si devono a lui, e a diverse collaborazioni, il WWW e l’HTML, per esempio.
Oggi è a Milano perché è stato scelto da TIM come testimonial per la sua campagna istituzionale che parte a gennaio: tra l’altro, grazie al suo recente “rebranding” (Telecom ha deciso di chiamare TIM sia le sue operazioni mobili che fisse) il principale fornitore di accesso al web in Italia ha finito per chiamarsi come l’inventore del web, e la scelta raddoppia il suo senso.
In questo posto bianco e luminoso, molto connesso, tra una ripresa e una riunione, TBL si interrompe a chiacchierare con alcuni giornalisti e blogger avvertiti della sua presenza. Ha un completo scuro e una camicia bianca, un po’ leggero per la giornata fredda, molto londinese.
Mi domando quanto sia ingombrante il suo ruolo, quella invenzione di 25 anni fa, se si senta come quelle band che hanno fatto un grandissimo disco a inizio carriera e poi altre cose buone e popolari (TBL ha tuttora ruoli molto importanti negli organismi che coordinano e garantiscono il libero funzionamento del web), e magari hanno un disco nuovo da far sentire, e intanto tutti chiedono loro ancora di quel primo e di come influì sulla storia del rock. Chissà se i suoi figli spiegano agli amici che il padre è “l’inventore del web”. “No, non credo”, mi dice pazientemente con un sorriso: però si vede che un po’ lo annoia, la questione. Non gli interessa.
Gli fanno altre domande, più attuali: la sicurezza, Parigi, Facebook. Risponde muovendo molto le mani e spostando il busto dalla sedia al tavolo e viceversa: strizza le palpebre, inarca le sopracciglia, corruga la fronte stempiata. Di profilo somiglia un po’ a Robert Duvall, anche se più affilato. Ha un accento inglese complicato da qualche incertezza, un abbozzo occasionale di balbuzie, ma parla molto speditamente. Quando gli facciamo domande in italiano avvicina la testa a quella dell’interprete, con una specie di dolcezza complice. Ha la gentilezza di dire spesso “questa è una domanda interessante”, da navigato intervistato. Ma pare rassicurato anche quando gli facciamo una domanda particolarmente scema, come se lo rilassasse impostare una risposta facile, rodata, senza nessun segno di delusione o stupore. Quando guarda chi gli sta parlando inclina la testa un po’ da una parte nella sua direzione, come per capire meglio.
Torno sui figli, gli chiedo se è un genitore preoccupato del rapporto dei suoi figli con internet, come tutti i genitori. Mi risponde come tutti i genitori equilibrati – “ci vuole prudenza, internet è l’umanità, ha il buono e cattivo, io sono un ottimista e vedo più il buono” – e non come corresponsabile. E allora lo domando a lui, se pensa di avere cambiato le nostre vite, il mondo come lo viviamo. Se non avesse “inventato il web”, lo avrebbe fatto qualcun altro e oggi useremmo internet allo stesso modo? O saremmo andati da un’altra parte?
“È una cosa a cui ho pensato”, risponde, incorniciato nella luce bianca della vetrata alle sue spalle, appoggiando i gomiti dalla mia parte del tavolo. E spiega che non lo sa, ma crede che se non fosse successo la gestione e i funzionamenti di internet non sarebbero stati organizzati in un sistema universale, e universalmente libero, accessibile e condiviso, ma che singole aziende e istituzioni – come provò a fare AOL – avrebbero costruito sistemi e organizzazioni dell’uso di internet propri e diversi, con differenti sistemi di accesso, linguaggi, offerte: “walled gardens”, molto legati alle nazioni in cui avrebbero operato, nazioni che sarebbero state responsabili e intermediarie di tutti i coordinamenti e relazioni globali tra le diverse reti.
Sarebbe stato diverso.