La mente può decidere di toglierci la vista
Lo dimostra la storia di una donna tedesca che aveva perso la vista da giovane ma l'ha recuperata lavorando sul suo disturbo dissociativo dell'identità
di Sarah Kaplan - The Washington Post
Erano passati più di dieci anni dall’ultima volta che B.T. era riuscita a vedere qualcosa. A causa di un trauma subìto in un incidente da giovane, i medici le avevano diagnosticato la cecità corticale, causata da un danno ai centri del cervello responsabili di processare i segnali visivi. Di conseguenza le fu affidato un cane guida e si abituò all’oscurità.
B.T. aveva comunque altri problemi di salute: più di dieci diverse personalità che facevano a gara per controllare il suo corpo. Fu proprio durante i trattamenti per il suo disturbo dissociativo dell’identità che all’improvviso recuperò la capacità di vedere. Solo che non la recuperò B.T., cioè una donna tedesca di 37 anni, ma il ragazzino adolescente in cui talvolta si trasformava la sua personalità. Grazie alla terapia, nel giro di qualche mese tutte le identità di B.T. tranne due recuperarono la capacità di vedere. Quando la paziente oscillava tra le varie identità, la sua visione andava e veniva come se avesse una specie di interruttore nel cervello: il mondo appariva e poi di colpo tutto tornava buio.
Come spiegano i medici di B.T. sulla rivista scientifica PsyCh Journal, la cecità della loro paziente non era causata da un danno cerebrale, come stabilito inizialmente con una prima diagnosi. Era invece qualcosa di più simile a un modo di dare gli ordini del cervello, a un problema psicologico più che fisiologico. Il caso di B.T. rivela molto sugli incredibili poteri della nostra mente e su come può controllare ciò che vediamo e ciò che siamo.
Per capire cosa fosse successo a B.T., gli psicologi tedeschi Hans Strasburger e Bruno Waldvogel sono andati a ritroso fino alla sua prima diagnosi di cecità corticale. Le cartelle cliniche dell’epoca riportano come la paziente fosse stata sottoposta a una serie di test visivi – con laser, occhiali speciali, luci proiettate in una stanza – che avevano dimostrato la sua presunta cecità. Poiché non c’era un danno diretto ai suoi occhi, si pensò che B.T. avesse un problema di visione legato a un danno cerebrale causato da un incidente (non viene specificato che tipo di incidente nella cartella clinica).
Waldvogel non aveva elementi per mettere in dubbio la diagnosi quando 13 anni dopo le fu affidata B.T. come paziente, per trattare il suo disturbo dissociativo dell’identità – quello che un tempo era definito disturbo di personalità multipla. B.T. mostrò di avere più di 10 personalità, diverse per età, genere, abitudini e carattere. Parlavano pure lingue diverse: alcune l’inglese, altre solo il tedesco, alcune invece entrambe le lingue (B.T. da bambina aveva trascorso del tempo in un paese in cui si parlava inglese come prima lingua, benché in seguito si fosse trasferita nuovamente in Germania).
A quattro anni dall’inizio della psicoterapia, accadde qualcosa di strano: dopo avere finito una seduta, mentre si trovava nello stato mentale di un adolescente, B.T. vide una parola sulla copertina di una rivista. Era la prima parola che vedeva da 17 anni. Inizialmente la capacità di vedere di nuovo riguardava la sola visione di singole parole; se le veniva chiesto, non riusciva nemmeno a vedere le singole lettere che costituivano la parola. Ma gradualmente la cosa si estese, prima a processi visuali più complessi (come la lettura) poi a processi più semplici (il riconoscimento delle forme), fino a quando buona parte delle sue personalità acquisirono la capacità di vedere. Quando B.T. passava da una personalità a un’altra, cambiava anche la sua capacità di vedere.
A questo punto Waldvogel iniziò a dubitare circa la causa della perdita della vista della sua paziente. Era improbabile che un danno cerebrale di quel tipo potesse essersi ripararato istantaneamente dopo così tanto tempo dal trauma che lo ha causato. Anche se così fosse stato, non spiegava perché la visione di B.T. continuasse a presentarsi e a sparire: chiaramente c’era qualcos’altro che stava andando storto.
La spiegazione che la paziente stesse fingendo di essere malata fu smentita da un elettroencefalogramma: nei due stati mentali in cui era cieca, il cervello di B.T. non indicava nessuna delle risposte agli stimoli visivi cui veniva sottoposta, e a cui i pazienti di solito reagiscono, anche quando B.T. era perfettamente cosciente e non aveva distrazioni. Waldvogel e Strasburger ipotizzarono quindi che la cecità della paziente fosse psicogena (causata da stati psicologici e non fisici). Qualcosa era accaduto, forse legato al suo incidente, e aveva portato il suo corpo a reagire escludendo la sua capacità di vedere. Un meccanismo che ancora adesso veniva mantenuto da due delle sue personalità.
Strasburger ha spiegato che “queste reazioni funzionano probabilmente da rifugio per la mente: nelle situazioni emotivamente molto intense, i pazienti talvolta hanno il desiderio di diventare ciechi, in modo da non avere la necessità di vedere qualcosa”. In effetti non è così fuori dal comune che il cervello di alcune persone impedisca loro di vedere, anche quando i loro occhi funzionano normalmente, spiegano i ricercatori. Quando gli occhi vedono due immagini marcatamente differenti – per esempio se si è molto strabici – il cervello elimina una delle due immagini in modo da non restare confusi. Il cervello interviene anche nel processo visivo, quando ci si focalizza su un particolare oggetto presente nel campo visivo. Nel caso di B.T. il problema potrebbe essere dovuto al corpo genicolato laterale, una specie di centro neuronale che tratta le informazioni provenienti dalla retina e le invia poi al resto del cervello per essere processate come informazioni.
Il caso clinico di B.T. è comunque più interessante per quanto ci dice dal punto di vista del disturbo dissociativo dell’identità (DID), che sembra essere la causa della sua perdita della visione. Benché il DID sia presente nella “Bibbia” della psichiatria, cioè il “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali” dal 1994 (e in precedenza era riconosciuto come disturbo di personalità multipla), c’è ancora molto scetticismo circa le diagnosi di questo tipo. Prima che fosse identificata come una malattia diagnosticabile, il disturbo dissociativo dell’identità era associato ad altri problemi mentali come l’”isteria”, termine che dà bene il senso di come fossero viste le persone che ne soffrono.
Gli attuali detrattori di questo tipo di diagnosi dicono che non c’è un consenso scientifico sufficientemente ampio sui criteri per diagnosticare e trattare il DID, accusando anche i media di avere contribuito al sensazionalismo intorno a questa malattia, portando a una moltiplicazione delle diagnosi di questo tipo. Negli anni Novanta ci furono molte cause legali da parte di pazienti sottoposti a trattamenti contro questo disturbo e che secondo loro non ne avevano bisogno, e si pensò anche che il DID non fosse curato dagli psichiatri ma anzi indotto dalla loro terapia attraverso il potere della suggestione. Altri ritengono che il DID possa essere solo un prodotto della frammentazione del pensiero complesso: una sorta di guasto in una mente che non riesce ad affrontare emozioni complesse.
Strasburger e Waldvogel dicono che la loro scoperta è una prova del fatto che il DID si può sviluppare a un livello biologico molto elementare. Dopotutto non erano solo le funzioni cognitive di alto livello – come la lettura – a condizionare B.T.: anche cose elementari come la percezione della profondità costituivano per lei una difficoltà. I medici di B.T. se ne sono accorti proprio grazie ai test effettuati con l’elettroencefalogramma.
Questo caso dimostra che il DID “è effettivamente una sindrome dovuta a stress psicologico”, dice il professor Richard P. Kluft della Temple University School of Medicine, che non ha partecipato direttamente allo studio. Il disturbo non è solamente il prodotto della cultura o dell’influenza da parte degli psichiatri: come nel caso di B.T., “rappresenta il tentativo della mente di compartimentalizzare il dolore”.
©2015 The Washington Post