Come si sconfigge l’ISIS?
Ci sono tre grandi proposte, ciascuna con grossi limiti e rischi, e nessuna che risolva il problema più grosso: anche sconfiggendo l'ISIS, che si fa dopo?
Quando si parla di Stato Islamico (o ISIS) una delle cose che ci si domanda di più è come fare a sconfiggerlo. È anche uno dei punti su cui c’è più disaccordo tra consulenti militari e analisti di mezzo mondo, perché ogni possibile soluzione proposta comporta rischi molto alti. Ci sono diverse ragioni per cui c’è così poco accordo: l’ISIS è un’organizzazione – e uno stato – su cui nell’ultimo anno si è scritto molto, ma di cui si conosce ancora poco (per esempio non sono chiare del tutto la sua organizzazione interna e la ripartizione dei poteri tra i suoi leader); si è stabilito in maniera massiccia in due stati diversi, l’Iraq e la Siria, sfruttando opportunità inevitabilmente diverse e legate alle specifiche debolezze dei due paesi. È quindi possibile che la soluzione trovata per la Siria non sia replicabile in Iraq; e poi la guerra nei territori controllati dall’ISIS, e nei territori che si trovano attorno, coinvolge molti gruppi e stati, ognuno con delle proprie priorità: non esiste oggi un’idea condivisa su quale sia l’obiettivo primario da raggiungere, se la sconfitta dell’ISIS, del regime siriano di Bashar al Assad o dei gruppi ribelli che combattono in Siria.
Per capirci qualcosa in più è necessario fare alcune premesse. A oggi esiste una coalizione internazionale che combatte l’ISIS: è guidata dagli Stati Uniti, ma nell’ultima settimana – dopo gli attentati di Parigi – la Francia ha aumentato il suo impegno, per esempio bombardando Raqqa, la città siriana considerata la capitale dello Stato Islamico. Alla coalizione partecipano in misura diversa moltissimi paesi, tra cui il Regno Unito e qualche paese arabo. Sul terreno di battaglia in Siria l’ISIS è combattuto soprattutto dai curdi, ma anche dai ribelli (“ribelli” è un termine generico usato ormai per indicare diversi gruppi, inclusi sia quelli più moderati – come l’Esercito Libero Siriano, alleato degli Stati Uniti – sia quelli più estremisti, come il Fronte al Nusra, il gruppo che “rappresenta” al Qaida nella guerra in Siria). Sul terreno di battaglia in Iraq, l’ISIS è combattuto dall’esercito iracheno e da milizie sciite fuori dal controllo governativo, tra cui alcune che subiscono la forte influenza dell’Iran, paese a larga maggioranza sciita e alleato del regime di Assad. A oggi non è chiaro però se ci sia e quale sia la strategia della coalizione e comunque molti analisti ritengono non sufficienti gli obiettivi raggiunti finora. E chiedono a Barack Obama, ma non solo, di fare di più.
Abbiamo messo in ordine le tre principali soluzioni proposte che hanno come obiettivo la sconfitta dell’ISIS, specificando le obiezioni e i rischi che ciascuna comporta. Poi c’è anche l’opzione del non-fare-niente, ma quella non è considerata oggi una via praticabile per sconfiggere l’ISIS, e quindi non la consideriamo.
1. Bombardare di più, e bombardare il petrolio
Diversi militari e analisti sostengono che la via intrapresa dalla coalizione internazionale, quella dei bombardamenti aerei contro postazioni dell’ISIS, sia buona ma che sia stata perseguita finora senza intensità sufficiente. Buona perché non è particolarmente impegnativa ed è in linea con la percezione di molti governi che l’ISIS non sia una vera minaccia alla propria sicurezza nazionale (forse oggi si può fare un discorso a parte per la Francia, ma è ancora presto per dirlo con certezza) e la soluzione dei bombardamenti aerei ha il vantaggio di non avere grossi rischi politici per i paesi coinvolti: per esempio non c’è il rischio che vengano uccisi centinaia di soldati della coalizione. Senza la sufficiente intensità, però, nel senso che il numero degli attacchi aerei è stato molto ridotto, se comparato a quello di altre operazioni aeree considerate di successo, come quella che costrinse l’ex presidente iracheno Saddam Hussein a ritirarsi dal Kuwait all’inizio degli anni Novanta.
Chi propone di aumentare la frequenza dei bombardamenti chiede anche che vengano colpiti con più intensità i giacimenti petroliferi sotto il controllo dell’ISIS, tra cui quelli della provincia orientale siriana di Deir Ezzor. La vendita di petrolio è infatti la prima fonte di guadagno dell’ISIS: si parla di circa 1,5 milioni di dollari al giorno. Negli ultimi giorni gli aerei della coalizione hanno bombardato per la prima volta le autocisterne che trasportano il greggio appena estratto, oltre che le raffinerie. Non tutti gli esperti però sono d’accordo con questa soluzione. Hassan Hassan, esperto di ISIS, ha scritto sul New York Times che i bombardamenti sui giacimenti petroliferi nell’est della Siria stanno distruggendo la vita di molti residenti che da anni – ancora da prima dell’inizio della guerra – basano i loro guadagni sulle attività legate allo sfruttamento e vendita del petrolio. Molti altri usano il carburante prodotto dal petrolio estratto per i mezzi di irrigazione nei loro campi, per generare elettricità o semplicemente rivendendolo nei mercati del petrolio. Inoltre una parte del petrolio estratto a Deir Ezzor viene venduto alle zone nord-occidentali della Siria, quelle controllate dai ribelli (che nella guerra combattono contro l’ISIS): gli Stati Uniti sono stati riluttanti a colpire le infrastrutture petrolifere perché potrebbe significare interrompere le forniture verso nord-ovest e perdere l’appoggio dei ribelli moderati, gli unici – a eccezione dei curdi – che collaborano ancora con gli americani e gli altri stati della coalizione.
2. Collaborare con le forze locali, allearsi con i curdi
La proposta di molti altri analisti o militari è quella di continuare i bombardamenti aerei, usandoli soprattutto come forma di appoggio e protezione per alcuni gruppi locali il cui obiettivo primario è la sconfitta dell’ISIS. Negli ultimi mesi si è parlato molto di stabilire una più forte alleanza con i curdi, che nel nord della Siria hanno creato di fatto una specie di stato indipendente, il Kurdistan siriano. In effetti gli Stati Uniti hanno già cominciato a muoversi in questa direzione: per esempio l’amministrazione americana ha mandato qualche decina di consiglieri militari a sostegno dei curdi. L’aiuto dei consiglieri, insieme all’appoggio aereo della coalizione, hanno permesso ai curdi di ottenere vittorie importanti, come per esempio la conquista di Sinjar, città siriana che si trova sulla principale linea di collegamento tra Raqqa e Mosul, due città controllate dall’ISIS. Il problema, hanno detto diversi altri analisti, è che l’alleanza con i curdi può funzionare ma ha una capacità molto limitata. I curdi non sembrano interessati a spingersi molto al di là dei territori dove abita la popolazione curda e a oggi è molto improbabile che siano disposti a impegnarsi in una battaglia rischiosa, come quella contro l’ISIS, su un territorio troppo esteso. Inoltre i curdi potrebbero chiedere agli Stati Uniti il riconoscimento formale di uno stato curdo, in cambio del loro impegno: un’eventualità a cui si oppone nettamente la Turchia, che è un membro della NATO e alleato degli Stati Uniti.
Se si parla di Iraq la situazione è altrettanto complicata. Dalla fine della guerra in Iraq del 2003 gli Stati Uniti si sono impegnati ad addestrare le forze di sicurezza irachene del nuovo stato post-Saddam Hussein. I risultati non sono stati soddisfacenti. Oggi l’esercito iracheno non è in grado da solo di riconquistare i territori che perse durante la rapida avanzata dell’ISIS nell’estate del 2014 (tra cui Mosul, la seconda città irachena e probabilmente la vittoria militare più importante dell’ISIS finora) e ha mostrato di avere bisogno del sostegno di alcune milizie sciite, molte delle quali vicine all’Iran, paese nemico degli Stati Uniti. Nella battaglia combattuta tra marzo e aprile nella città irachena di Tikrit, per esempio, gli Stati Uniti si sono trovati nella complicata situazione di dare sostegno aereo ai soldati iracheni e alle milizie sciite, le stesse che durante gli anni dell’occupazione americana dell’Iraq uccisero migliaia di soldati americani.
3. Mandare soldati di terra: invadiamo il Califfato Islamico?
È una delle proposte più discusse ma anche una di quelle che gli esperti considerano meno probabile. Prima ancora di valutarne l’efficacia, c’è da dire che nessun paese che oggi combatte l’ISIS sembra disposto a mandare truppe di terra nel Califfato islamico. L’amministrazione americana – che da anni sta perseguendo una generale politica estera di disimpegno, soprattutto dal Medio Oriente – ha da sempre escluso la possibilità di un intervento di terra («sarebbe un errore», ha ribadito Obama anche dopo gli attentati di Parigi). Finora la maggior parte dei paesi europei si è limitata a bombardare l’ISIS in Iraq, con un coinvolgimento di mezzi molto limitato. Alcuni paesi arabi stanno partecipando ai bombardamenti della coalizione, ma per molti di loro la priorità rimane la sconfitta di Bashar al Assad. Nessuno in questo momento sembra voler rischiare i costi che comporta un’invasione di terra, sia in termini economici che di perdite umane. In molti credono anche che le truppe mandate via terra potrebbero rischiare di “impantanarsi” in una guerra brutale e di cui oggi non si vede soluzione. Il fatto che in Siria siano aperti molti fronti di guerra sarebbe un’ulteriore difficoltà per i soldati della coalizione: anche sconfiggendo l’ISIS, cosa succederebbe dopo?
La soluzione dell’intervento di terra viene considerata da molti come l’unica con possibilità di successo (per esempio ne ha scritto anche l’Economist). L’idea di “dichiarare guerra all’ISIS”, come hanno fatto diversi esponenti di destra sia negli Stati Uniti che in Europa, è stata commentata molto duramente da un recente editoriale della redazione del New York Times. Il New York Times ha scritto che «nessuno di coloro che propone questo tipo di risposta offre la minima idea di come andrebbe fatto; tutti loro hanno il desiderio comprensibile, che condividiamo, di distruggere il gruppo terrorista conosciuto come ISIS». Il New York Times ha anche scritto che, nel caso in cui si dovesse decidere per un intervento via terra, gli Stati Uniti non potranno fare da soli: l’operazione dovrà essere guidata principalmente dai paesi della regione dove si sta combattendo la guerra.
Una soluzione che prevede sempre l’uso di forze di terra, ma leggermente diversa, è stata suggerita da John Arquilla, docente del programma delle operazioni speciali alla U.S. Naval Postgraduate School. Arquilla ha detto a Politico che si potrebbero mandare in Siria alcuni contingenti di forze speciali – ranger americani, legione straniera francese, corpi speciali dell’esercito inglese – che prendano il controllo di alcune zone dentro il territorio dell’ISIS, e che da lì facciano partire delle operazioni militari. Lo Stato Islamico, ha detto Arquilla, controlla alcune aree urbane divise però tra loro da territori desertici da cui passano alcune importanti linee di rifornimento. Interrompere queste linee, per l’appunto con l’uso di forze speciali, potrebbe indebolire significativamente l’ISIS e provocare una specie di “arresto cardiaco” dell’intero sistema.
Sì, ma dopo che si sconfigge l’ISIS?
Le proposte per sconfiggere l’ISIS comportano anche un’altra questione. A chi si danno dopo i territori sottratti all’ISIS? Ad Assad? È un problema spesso sottovalutato nel dibattito occidentale, ma che per esempio viene tenuto molto in considerazione dagli analisti che conoscono bene la situazione dei gruppi che combattono in Siria. Da quando è iniziata la guerra, l’esercito di Assad si è reso responsabile di un numero di morti molto superiore a quello provocato dallo Stato Islamico (questo non riduce in alcun modo la brutalità dell’ISIS e la minaccia che rappresenta per l’Occidente: è un dato di fatto) e molti siriani vedono ancora in Assad il loro nemico principale. In questa situazione è molto difficile per l’Occidente, ma anche per i paesi arabi, giustificare per esempio un intervento di terra contro l’ISIS, perché comporterebbe una naturale anche se temporanea alleanza con Assad. I rapporti tra i ribelli e la coalizione sono già deteriorati da tempo e potrebbero peggiorare ulteriormente. Senza alleati sul territorio – quindi senza uomini che lavorino per la ricostruzione della Siria nel senso voluto dagli occidentali – il rischio è che vada a finire come in Libia: uno stato nel caos e senza un’autorità centrale, dove proliferano gruppi estremisti e terroristici.
Il problema del dopo è anche il motivo per cui molti analisti insistono che a una soluzione militare debba essere accompagnata una soluzione politica. Definire cosa sia una soluzione politica che possa funzionare però non è facile. In sintesi si può dire che la soluzione più auspicabile oggi per l’Occidente si articola in modo diverso in Iraq e in Siria. In Iraq si dovrebbe riuscire a convincere i capi delle comunità sunnite dell’Iraq occidentale – gli stessi che hanno creato delle alleanze con l’ISIS, come reazione alle discriminazioni subìte dal regime sciita iracheno di Baghdad – a collaborare con il governo iracheno, come era successo nel 2006 e nel 2007 grazie a una particolare dottrina introdotta dal generale americano David Petraeus. La condizione necessaria affinché questo avvenga è che il governo iracheno di Baghdad cominci a sviluppare politiche più inclusive verso i sunniti. In Siria si dovrebbe accompagnare la sconfitta dell’ISIS con un allontanamento dal potere di Assad, come chiedono i ribelli, e la formazione di un governo di transizione. Oppure accettare lo smembramento del territorio siriano in tre parti: a occidente la parte alauita controllata dal regime, a nord il Kurdistan siriano e il resto governato da una formazione sunnita da stabilire.