La meditazione serve a qualcosa?
Sempre più studi dicono di sì, al di là delle connotazioni religiose, per ridurre lo stress e controllare le emozioni: ma altri ricercatori invitano a essere cauti
Se negli ultimi mesi quasi ogni giornale internazionale si è occupato di meditazione, e la pratica è stata adottata da scuole e grandi società – tra cui Google, per esempio – si deve agli studi scientifici che ne hanno studiato gli effetti sulla salute e soprattutto alla crescente diffusione della “mindfulness”, una forma di meditazione che deriva dalla meditazione buddhista e che, spogliata da elementi religiosi, viene usata per il trattamento di stress, depressione e altri problemi di salute mentale. Nei negozi di applicazioni per gli smartphone si trovano diverse app per la meditazione: di una di queste si è occupato di recente anche il New Yorker.
In primo luogo: cos’è la meditazione?
Esistono diverse pratiche che vengono genericamente raccolte con la parola “meditazione”. La meditazione di cui si parla in questi anni è un tipo di meditazione noto come “mindfulness”. In breve, è una pratica che aiuta, con una serie di esercizi, a concentrarsi sul momento presente. Normalmente si inizia a fare “mindfulness” con esercizi di attenzione sul respiro: come scrive Vox, “le persone iniziano stando sedute ferme per 10 minuti concentrandosi interamente sul loro respiro. L’idea è concentrare l’attenzione delle persone sulle molte sensazioni fisiche legate a ogni respiro: l’aria attraverso le narici, l’allargamento della cassa toracica, il movimento del diaframma”. Inizialmente riuscire a concentrarsi sul respiro per dieci minuti senza farsi distrarre dai pensieri è molto difficile, ma nel tempo si guadagna dimestichezza con la cosa.
Mark Williams, professore di psicologia clinica dell’università di Oxford che si occupa di meditazione, ha spiegato che la “mindfulness” «ci aiuta a fare un passo indietro rispetto ai nostri pensieri e a osservare i pattern. Gradualmente possiamo imparare a notare quando i nostri pensieri stanno prendendo il controllo e capire che i pensieri sono “eventi mentali” e che non ci devono necessariamente controllare».
I monaci buddhisti, come ha spiegato il Guardian, hanno praticato tecniche di meditazione simili a quelle della “mindfulness” per migliaia di anni, ma in Occidente la pratica si è diffusa a partire dagli anni Settanta grazie al lavoro del medico americano Jon Kabat-Zinn, che cominciò a trattare pazienti affetti da dolore cronico con un programma chiamato “Mindfulness-Based Stress Reduction”: una serie di incontri di gruppo in cui ai partecipanti venivano insegnati esercizi di meditazione da continuare a praticare nel tempo e in modo indipendente. I buoni risultati del lavoro di Kabat-Zinn hanno spinto altri a occuparsi di meditazione: ora programmi di cura che contemplano anche l’uso della “mindfulness” sono diffusi in diversi ambiti.
A cosa serve meditare?
In primo luogo, spiega Vox, meditare regolarmente aiuta a migliorare l’attenzione anche quando non si sta meditando. Diversi studi hanno mostrato che persone che hanno praticato “mindfulness” anche per pochi mesi si comportano meglio di persone che non meditano in test progettati per valutare la capacità di concentrazione. In alcuni test, per esempio, si chiede alle persone di dire il colore in cui è scritta una parola ignorando la parola stessa (blu, verde, giallo, rosso, marrone), in altri si chiede ai partecipanti di indicare dettagli di due foto che vengono mostrate in rapida successione: chi ha praticato “mindfulness” riesce spesso a indicare più dettagli della seconda foto, mostrando una migliorata capacità di dividere la propria attenzione. Altri test hanno mostrato infine che la meditazione può aiutare a migliorare la memoria e rallentarne il declino che accompagna l’invecchiamento.
Un altro aspetto in cui la meditazione può essere utile, dice Vox, è il controllo delle emozioni negative. Diversi studi hanno mostrato che le persone che meditano sono “emotivamente più solide” e più in grado di resistere a momenti difficili e controllare le loro emozioni. Per esempio, è stato notato che persone che hanno praticato “mindfulness” per un certo periodo di tempo sono meno influenzate dal guardare fotografie disturbanti mentre fanno qualcosa di non collegato a quelle immagini (mostrando quindi una miglior capacità di gestire le emozioni negative). Altri studi, basati su questionari da compilare, hanno mostrato che dopo alcune settimane di pratica di meditazione le persone si sentono meno arrabbiate e stressate e, in generale, meno spaventate delle loro emozioni. Questi studi, spiega Vox, fanno pensare che la “mindfulness” possa essere usata con successo per trattare forme di ansia e diversi tipi di dipendenza (a partire dalla dipendenza dalla nicotina).
Altri studi hanno infine mostrato invece che la meditazione può aiutare i pazienti che soffrono di depressione ricorrente a evitare ricadute; nel Regno Unito il trattamento della depressione basto sulla “mindfulness” è stato approvato ed è fornito dal servizio sanitario nazionale.
Ma funziona?
Sull’efficacia della “mindfulness” non c’è ancora una conoscenza certa. Come spiega Vox il numero e la qualità degli studi che se ne occupano stanno aumentando, ma ci vorrà parecchio tempo prima che si disponga di risultati certi e numericamente significativi. Gli studi condotti negli ultimi anni hanno dato risultati incoraggianti in diversi ambiti, ma ci sono ancora molte cose non chiare sul funzionamento della meditazione e qualche preoccupazione su possibili effetti collaterali. Diversi studi, per esempio, hanno mostrato che tra le persone che hanno praticato la meditazione a lungo e quelle che non lo hanno mai fatto ci sono differenze osservabili in almeno 8 diverse aree del cervello, ma per come sono stati strutturati gli studi non si può parlare di causalità ma solo di correlazione tra la “mindfulness” e i cambiamenti osservati.
Anche se i risultati di molti studi sono incoraggianti e la pratica della “mindfulness” si sta molto diffondendo, qualche ricercatore ha espresso dubbi e perplessità sulla sua reale efficacia. Per esempio, Catherine Wikholm ha spiegato sul Guardian che non bisognerebbe trattare la “mindfulness” come una cosa innocua e che-fa-bene-a-tutti. In primo luogo perché il numero di studi che se ne occupa è ancora limitato e poi perché, secondo Wikholm, molti ricercatori hanno deciso di non occuparsi dei potenziali effetti negativi della meditazione. Per esempio la possibilità che concentrarsi sui propri pensieri possa farne affiorare di negativi e causarci dolore e stress, invece che ridurli. In generale, raccomanda Wikholm, bisogna evitare di affrontare la questione in modo ingenuo e superficiale e occuparsi invece seriamente degli studi che vengono condotti, notandone sia i punti di forza che quelli di debolezza.