Dentro agli ospedali di Parigi durante gli attentati
Le storie di medici e infermieri che hanno contribuito a salvare la vita a quasi tutti i 400 feriti che sono stati ricoverati quella notte
La sera del 14 novembre il procuratore di Parigi, François Molins, disse alla stampa che il numero dei morti negli attentati di Parigi sarebbe inevitabilmente salito. Fino a quel momento 129 persone erano state uccise, ma altre 400 erano ricoverate negli ospedali della città, più di novanta in condizioni critiche. La previsione di Molins non si è avverata. Dieci giorni dopo gli attacchi, il bilancio ufficiale dei morti è rimasto fermo a 130, di cui soltanto tre deceduti dopo essere stati ricoverati in ospedale. Negli ultimi giorni diversi giornali hanno parlato della prontezza, dell’abilità e del coraggio dei medici che hanno soccorso i feriti, e hanno sottolineato come il sistema sanitario francese si sia rivelato in quella occasione molto reattivo ed efficiente.
L’ospedale St Luis durante gli attacchi (Pourya Pashootan/Facebook)
Uno di quei medici è il dottor Pourya Pashootan, impiegato all’ospedale St Louis di Parigi e autore di una delle foto diventate virali dopo gli attacchi, scattata la sera degli attacchi in una corsia dell’ospedale St Louis. Quella sera, ha raccontato Pashootan a Time, «senza pensare al pericolo, senza esitazione, siamo tutti corsi ai nostri ospedali». Una volta arriva al St Louis, «quando mi sono accorto di quello che stava succedendo ho pensato che in un certo senso fosse bellissimo. Ho scattato la fotografia e quando sono ritornato a casa ho pensato che sarebbe stata una vergogna non condividerla». Decine di medici come Pashootan hanno raccontato che la sera del 13 novembre si sono presentati spontaneamente agli ospedali della città per soccorrere i feriti. Marie, un medico che ha dato un’intervista all’Indipendent e che è stata identificata solo con il suo nome, ha detto che nel suo ospedale «tutti erano molto calmi, non c’era nessuno che piangeva o che era nel panico. Era tutto molto professionale».
Il primo attacco è avvenuto alle 21 e 20, quando il primo attentatore si è fatto esplodere fuori dallo Stade de France. Un’ora dopo le autorità hanno annunciato l’entrata in vigore del “plan blanc”, un piano di emergenza che prevede di mobilitare dottori, infermieri e ambulanze in caso di emergenza. Il personale ha subito iniziato ad affollare gli ospedali, mentre le centrali di controllo inviavano i primi medici sul posto e smistavano le ambulanze verso gli ospedali con le sale operatorie già pronte. Dagli attacchi al settimanale satirico Charlie Hebdo, lo scorso gennaio, il sistema sanitario francese si è dotato delle difesa necessarie ad affrontare un’emergenza come quella della notte del 13 novembre: una sparatoria di massa con decine di feriti. In questi casi, la prontezza degli interventi può fare la differenza tra decine oppure centinaia di morti.
Proprio la mattina degli attacchi, gli ospedali di Parigi avevano tenuto un’esercitazione per vedere come il sistema avrebbe reagito in una situazione del genere. Mathieu Raux, un medico dell’ospedale Pitié-Salpetrière, ha raccontato a Bloomberg che nel corso dell’esercitazione alcuni specialisti avevano testato il sistema informatico per smistare le chiamate di emergenza verso i reparti più attrezzati a curare i feriti, lo stesso procedimento che si è rivelato fondamentale poche ore dopo. Altri specialisti avevano controllato che nelle sale operatorie tutti i componenti fossero al loro posto e che medici ed infermieri di riserva fossero pronti per essere richiamati in caso di necessità. «Avevamo testato ogni anello della catena», ha raccontato Raux.
All’ospedale Pitié-Salpetrière, come nel resto di Parigi, la preparazione ha pagato. Alle 21 e 40, venti minuti dopo il primo attacco e un’ora prima della proclamazione del “plan blanc”, l’ospedale era già in allerta. Nel giro di un’ora, quando le prime ambulanze hanno iniziato a portare i feriti nell’ospedale, dieci sale operatorie erano già state attrezzate.
«È stata chirurgia di guerra», ha raccontato Rémi Nizard, un chirurgo che ha preso servizio volontariamente nella sera di venerdì: «Arrivava gente con ferite d’arma da fuoco al collo, alla testa, con gli occhi usciti dalle orbite». Raux, il medico del Pitié-Salpetrière, racconta: «Alcuni feriti avevano proiettili ovunque, nel petto, nelle braccia, nelle gambe. Non ho mai visto niente del genere». Un’infermiera, che sul sito Reddit ha rilasciato un AMA (una specie di intervista condotta dagli utenti del sito) senza pubblicare il suo nome, ha raccontato che le ferite di kalashnikov erano particolarmente terribili perché spesso «il proiettile non si limita ad attraversare il corpo: quando colpisce un osso lo fa esplodere in mille frammenti». Anche Pashootan, il medico che ha scattato la foto in una corsia del St Louis, è rimasto molto impressionato da quello che ha visto: «Sembrava di essere in guerra».
Per alcuni medici in posizioni chiave nella struttura sanitaria parigina, questo tipo di scenario non era una novità. Philippe Juvin, capo dell’unità di emergenza dell’ospedale Georges Pompidou, ha servito come anestesista in Afghanistan nel corso del 2008. Juvin ha raccontato di come la sua esperienza di guerra lo abbia aiutato a mantenere la calma mentre le corsie del suo ospedale si riempivano con più di cinquanta persone coinvolte negli attacchi: «Ho visto i risultati di scontri con armi da fuoco, esplosioni, incendi e incidenti: ma non avevo mai visto così tanti feriti tutti in una volta».
Altri medici e infermieri si sono trovati per caso nel mezzo della strage, senza sale operatorie e procedure collaudate a disposizione. David, identificato dalla stampa solo con il suo nome, era al caffè Comptoir Voltaire quando Ibrahim Abdeslam – il fratello di Salah Abdeslam, che gli investigatori ritengono sia l’unico attentatore superstite – azionò la sua cintura esplosiva. In un primo momento, David pensò si fosse trattato di un’esplosione dovuta a una fuga di gas: «C’è stata una grossa fiammata e poi un sacco di polvere», ha raccontato al Guardian. «La gente ha subito iniziato a scappare». Per prima cosa David ha aiutato una donna e poi un uomo che sanguinava, steso su un tavolo. Quando si è reso conto che l’uomo era fuori pericolo, David si è avvicinato a un ragazzo privo di coscienza stesso per terra. Gli ha aperto la maglietta e ha visto che sul petto c’erano dei cavi elettrici: «In quel momento ho capito che era un attentatore suicida». La polizia ha accertato in seguito che Abdeslam non era riuscito a uccidere nessuno nel caffè perché la sua bomba non era esplosa completamente. Come mostra un filmato di sicurezza, David ha cominciato immediatamente a praticare un massaggio cardiaco su Abdeslam. La rianimazione, racconta David, «è un procedimento molto vigoroso. Mentre lo massaggiavo avrei potuto saltare in aria anche io». Abdeslam è poi morto in seguito alle ferite riportate.