Cosa vuol dire che soffriamo più per Parigi che per Beirut
Non che siamo razzisti, scrive Maxim Mayer-Cesiano sul Washington Post
di Maxim Mayer-Cesiano - Washington Post
Le manifestazioni di solidarietà nei confronti di Parigi sono state soprattutto positive, ma c’è un tipo di reazione che è suonato piuttosto strano: i rimproveri contro la nostra ipocrisia per esserci emozionati così tanto nei confronti di vittime europee e soprattutto bianche, mentre reagiamo con minore sensibilità al dolore delle vittime di attacchi terroristici in altre parti del mondo. Questa sciagurata differenza è, secondo le accuse, un segno di razzismo latente.
Paragonando la reazione su Parigi al complessivo silenzio globale per due attentati suicidi a Beirut, Aryn Baker ha scritto su Time: «Qualsiasi siano le ragioni – e ce ne sono molte – per le disparità di reazioni, il messaggio che viene trasmesso da questi eventi gemelli è che certe vite valgono più di altre». E il titolo di un articolo su AntiMedia.org dice: “America: la tua solidarietà con Parigi è sgradevolmente fuori luogo”. L’articolo sostiene che «fintanto che portate una bandiera sola, il vostro sforzo di essere vicini alle vittime del terrorismo è una solidarietà imbarazzantemente vuota».
È una tesi senza senso. Il dolore è un’emozione personale, e spesso quando è sentito sinceramente non è né giusto né proporzionato alla demografia mondiale. Il dolore non sta nella stessa categoria di cose come il diritto di voto, la legge, l’istruzione o il lavoro. Non è una questione di giustizia.
Alle persone è dato di soffrire nel modo in cui vogliono soffrire. Se qualcosa le commuove di più, va bene così. Molte persone sono state a Parigi e hanno avuto esperienze felici. Molte persone hanno a Parigi familiari, amici o colleghi che per loro contano di più di una vittima anonima. È un’affinità che non viene necessariamente da sentimenti di odio, ignoranza o cattivi in genere. È soltanto essere umani e avere emozioni. Nessuno ha il diritto di farsi polizia di queste emozioni.
Inoltre, è normale che le tragedie di Beirut e Parigi non abbiano la stessa attenzione giornalistica. Beirut è a meno di un’ora di auto dalla Siria, un paese devastato da una guerra civile. Fronti che cambiano di continuo, ribelli contro il governo contro lo Stato Islamico cosiddetto. Il confine tra Siria e Libano è fragile e i siriani lo attraversano facilmente. Beirut stessa è stata una zona di guerra diverse volte negli ultimi trent’anni. Parigi, invece, è di solito una città sicura (malgrado l’attentato contro Charlie Hebdo). È a più di tremila chilometri dalla guerra, e non è facile entrare liberamente nei confini dell’Unione Europea dal Medio Oriente, anche con i flussi dei profughi.
Una settimana fa c’erano comprensibilmente prospettive diverse sui luoghi più vulnerabili al terrorismo islamista. Non è ugualmente sorprendente che degli attentatori suicidi uccidano 37 persone vicino a una zona di guerra e che una serie di sei attacchi coordinati si sviluppi in una città che non ha a che fare con nessun conflitto, uccidendo 130 persone. Anche la pianificazione dell’attacco, lontano dal fronte, mostra una raffinatezza e scala dell’operazione che supera la nostra precedente comprensione dello Stato Islamico.
Parigi, quindi, è stato imprevisto. Questo ci spaventa, e spinge lettori e spettatori a chiedersi cos’altro possiamo avere sottovalutato. Non c’è da meravigliarsi se ha generato una reazione più forte, più acuta, nei media e nei social network occidentali. Sarebbe un mondo migliore se tutti potessero avere uguali e ragionevoli aspettative sulla propria sicurezza, ma oggi non è questo mondo.
Tra l’altro, gli altri attentati – di cui dobbiamo assolutamente essere preoccupati – vengono raccontati dai giornali: compresa la strage in Kenya e gli attentati di Beirut. Come ha scritto Erin Cunningham, corrispondente del Washington Post dal Cairo, “non venite a parlare di assenza di notizie ai giornalisti che in tutto il Medio Oriente raggiungono zone pericolose ed esplosive per raccontare quelle storie”.
Certo che il mondo è pieno di razzismo. E molti vedono il prossimo come diverso. Per affrontare questo problema più empatia è sempre meglio che meno empatia. Ma anche se siamo tutti uguali, non è un delitto soffrire per la perdita di qualcosa di familiare più di quanto si soffra per qualcosa lontano o del tutto ignoto. Piangiamo se un nostro parente muore di cancro, non piangiamo se muore di cancro uno sconosciuto. Davvero qualcuno pensa che il dolore sia un’unità di misura del valore che diamo alle vite? Siamo meno giusti o impegnati a che il mondo sia un luogo equo se amiamo i nostri cari? Non c’è nessun bisogno di convincere le persone che i modi in cui esprimono dolori sinceri debbano essere un problema.
© Washington Post 2015
– Luca Sofri: Siamo in effetti parigini