Cosa fa oggi un agente letterario
Non solo contratti ma tutto quel che ruota attorno al libro, a parte scriverlo, stamparlo e venderlo in libreria, e nonostante la crescita del self publishing
La più grande agenzia letteraria italiana, The Italian Literary Agency, non ha ancora un sito, ma ha una nuova sede, in via De Amicis 53 a Milano. L’agenzia è nata ufficialmente il 30 settembre dalla fusione di tre tra le maggiori agenzie letterarie italiane: l’ALI, Agenzia Letteraria Internazionale, fondata nel 1898 da Augusto Foà, l’agenzia Marco Vigevani, fondata nel 2001, e Luigi Bernabò & Associates, fondata nel 1989 da Luigi e Daniela Bernabò. Chiara Boroli di ALI è presidente, Marco Vigevani amministratore delegato, Claire Sabatié-Garat direttore operativo. Ginevra Bernabò, dopo la morte dei suoi genitori, ha invece deciso di cedere le sue quote.
Dopo l’acquisizione di RCS Libri da parte di Mondadori, la nascita di The Italian Literary Agency – che rappresenta circa 150 autori (qui quelli di ALI, qui quelli di Vigevani) – è un altro segno del processo di concentrazione in atto nell’editoria italiana. Le dimensioni delle altre tre grandi agenzie letterarie – Grandi & Tettamanti, Roberto Santachiara e Rosaria Carpinelli – a questo punto sono distanti, anche se uno o due grandi bestseller basterebbero a cambiare le cose. Esiste poi una miriade di agenti medio-piccoli o minuscoli – come Antonella Antonelli, Susanna Zevi, Piergiorgio Nicolazzini, Vicky Satlow, Berla&Griffini, Silvia Donzelli, Herzog, Kalama, Agenzia Malatesta e altri – che continua ad aumentare di numero, invece di diminuire come ci si aspetterebbe in un mercato che diventa sempre più piccolo, ha costi di pubblicazione sempre più bassi, vede crescere il self publishing e accorciarsi la distanza tra aspiranti scrittori ed editori.
La prima ragione della proliferazione degli agenti letterari è che la crisi ha lasciato senza lavoro una quantità di persone – editor, redattori e consulenti – che in mancanza di domanda di lavoro editoriale vero e proprio, hanno pensato bene di reinventarsi come agenti visto che, invece, il numero di aspiranti scrittori rimane costante. Ma il bisogno di intermediazione aumenta anche perché per tentare di contenere i costi, le catene decisionali e burocratiche dei grandi editori si sono allungate rendendo, quindi, decisivo il mestiere di chi riesce a chiedere e ottenere risposte. Fino a dieci anni fa, i direttori editoriali avevano un’autonomia decisionale quasi esclusiva, mentre oggi ogni decisione di tipo editoriale – pubblicazione, anticipo, tiratura – deve passare al vaglio anche dei responsabili amministrativi e commerciali. In un mercato in cui si vendono meno libri, il potere contrattuale degli scrittori diminuisce e gli editori tendono a pagare meno e tardissimo, sempre che paghino.
Prendere i soldi è un problema ulteriore: il primo è firmare contratti accettabili, cosa che oggi non è più scontata. Come sempre nei momenti di crisi, chi compra è in grado di imporre le proprie condizioni a chi vende. Il self-publishing non è un’alternativa, probabilmente non lo sarà mai e a oggi costituisce un’arma in più in mano agli editori. Per uno scrittore l’auto-pubblicazione può essere il modo per farsi notare e farsi leggere da un editore, ma non rappresenta ancora una strada alternativa. L’auto-pubblicazione può funzionare da incubatrice, ma l’acceleratore rimane ancora l’editoria tradizionale, perché è ancora solo l’editoria tradizionale che ha la forza di portare un libro dalla nicchia alla massa. Alcuni editori che pescano nel mercato del self-publishing, poi, tendono a proporre agli autori contratti in cui si chiede di cedere per trent’anni i diritti di qualunque cosa venga scritta in futuro. Succede spesso che gli autori accettino, pur di essere pubblicati da un editore che abbia un marchio e un distributore.
Erich Linder fu il più importante agente italiano e uno dei più importanti del mondo, dal dopoguerra fino alla morte, avvenuta nel 1983. Guidava l’ALI, praticamente l’unica agenzia presente in Italia, oltre all’Eulama di Harald Kahnemann e Karin von Prellwitz, che però era molto più piccola e arrivò in Italia solo nel 1964. A chi gli chiedeva in che cosa consistesse esattamente il suo lavoro, Linder rispondeva con molto understatement: «Faccio contratti». In realtà il mestiere dell’agente assomiglia a quello dell’editore, almeno nella definizione di Valentino Bompiani: l’editore non scrive, non stampa, non vende: fa tutto il resto. Anche l’agente – se fa il suo lavoro, per cui prende dal 10 al 20 per cento della quota dei diritti spettanti all’autore – fa tutto il resto: consiglia l’autore sui manoscritti, concorda cambiamenti, discute il titolo, invia (e presenta, possibilmente al meglio) il manoscritto all’editore, cercando di capire quale sia quello giusto, tratta gli anticipi, gestisce i contratti, dice la sua sulla copertina, concorda i piani pubblicitari e di marketing, se ci sono, reclama i pagamenti, se non ci sono, e cerca di vendere all’estero i diritti degli autori italiani e di vendere in Italia quelli degli scrittori stranieri.
Purtroppo per gli agenti italiani, molti grandi scrittori stranieri stanno decidendo di fare da soli. Fino a pochi anni fa i grandi autori internazionali avevano agenti nei loro Paesi che a loro volta si appoggiavano a subagenti – o agenti “domestic” – nei Paesi dove il libro veniva tradotto. Ogni passaggio, ovviamente, si quantificava in piccole percentuali che andavano a erodere il monte diritti iniziali. Per questi negli ultimi anni molti grandi autori internazionali – come Scott Turow, Dan Brown, J.K. Rowling – hanno deciso di saltare questa catena di intermediazione, creando propri uffici per gestire e vendere direttamente i propri diritti all’estero. Agli agenti italiani non rimane che provare a vendere gli italiani all’estero, cosa non facile perché all’estero notoriamente si traduce poco, sempre meno, e pochi libri italiani in particolare.
Se il mercato interno si restringe e pullula di concorrenti, se gli scrittori stranieri decidono di fare da soli, agli agenti in Italia rimangono due scelte: provare a unirsi per cercare di aumentare il proprio potere contrattuale nei confronti degli editori oppure accettare di ridursi a rappresentare pochi selezionatissimi autori, perfino uno solo, se è abbastanza grande da garantire il sostentamento. È l’alternativa che si pone a tutta l’editoria, a cominciare dagli editori: quella tra il modello industriale novecentesco – e i risultati di Bertelsman nei primi 9 mesi del 2015 sembrerebbero indicare che è una strada possibile – oppure abbandonare ogni pretesa di grandezza, e ritornare, come nell’Ottocento, alla specializzazione e all’artigianalità.