Partorire in Sud Sudan
Un reportage fotografico – e un progetto umanitario – sulle donne incinte in uno dei posti col più alto tasso di mortalità materna e infantile al mondo
Ayen Majok Ariik è arrivata alla clinica di Mingkaman, una città nel mezzo del Sud Sudan, forse dopo avere ascoltato i messaggi trasmessi dalla radio locale sull’importanza di partorire in una struttura sanitaria con personale medico preparato. Ayen – che dovrebbe avere circa 15 anni, ma certamente non più di 16, dice la sua ostetrica – ha chiamato l’ambulanza quando era già entrata in travaglio. È stata portata in una tenda coperta di muffa, con una temperatura interna di circa 40 gradi e il costante rumore del generatore usato per illuminare la sala parto. Il suo non è stato un parto semplice: a causa del lungo travaglio, suo figlio è nato con le vie respiratorie ostruite da fluidi e muco. L’ostetrica ha dovuto intervenire per liberarle e anche per rimuovere manualmente la placenta di Ayen.
Un’infermiera libera le vie respiratorie di un bambino appena nato nella struttura sanitaria di Mingkaman, in Sud Sudan, il 22 ottobre 2015. Sullo sfondo si vede la madre, Ayen Majok Ariik. (Alessandro Rota)
La scelta di Ayen – andare a partorire in una struttura sanitaria – non è la norma in Sud Sudan, un paese in guerra e tra quelli con il tasso di mortalità materna e infantile più alto al mondo. L’arretratezza delle strutture sanitarie nazionali e l’impreparazione generale del personale medico si sommano a una serie di tradizioni difficili da superare. Il fotografo italiano Alessandro Rota è andato nello stato di Laghi, nel Sud Sudan centrale, e ha raccontato la storia di alcune donne che hanno superato le diffidenze e sono andate a partorire in una delle strutture sanitarie attorno a Mingkaman. Le fotografie e le storie di queste donne, delle loro famiglie e comunità di appartenenza sono state pubblicate sul sito del progetto a cui ha partecipato Rota: si chiama “From War to Life” (“Dalla guerra alla vita”) ed è stato realizzato in collaborazione con il Comitato Collaborazione Medica (CCM), un’organizzazione non governativa di Torino che si occupa di diversi progetti e attività in alcuni stati dell’Africa (Alessandro Rota si può seguire anche su Twitter e Instagram).
Nel dicembre del 2013 in Sud Sudan è cominciata una guerra civile molto violenta riconducibile alla lotta di potere tra le forze del presidente sud sudanese Salva Kiir – a capo del paese dall’indipendenza, sancita con un referendum il 9 luglio 2011 – e quelle dell’ex vicepresidente e attuale leader dei ribelli Riek Machar. L’opposizione tra i due schieramenti è alimentata anche da antiche divisioni etniche, e cioè dall’inimicizia tra i Dinka, il gruppo etnico di Kiir e il più numeroso del paese, e i Nuer, a cui invece appartiene Machar. Nell’ottobre di quest’anno l’Unione Africana ha accusato forze governative e ribelli di avere commesso omicidi, torture, mutilazioni, rapimenti di donne, stupri e anche di episodi di cannibalismo forzato, soprattutto contro civili non direttamente coinvolti nel conflitto. Anche le Nazioni Unite avevano parlato in passato di crimini contro l’umanità riferendosi a entrambe le parti della guerra sud-sudanese.
Oltre alla guerra civile, la situazione di molte comunità locali sud-sudanesi è resa ancora più complicata dalla malnutrizione – un problema molto diffuso e responsabile di diverse malattie – e dalla mancanza di strutture sanitarie con personale medico formato e preparato. Nel villaggio di Abuyung, per esempio, il governo gestisce un ospedale in condizioni molto precarie: mancano le attrezzature mediche, i letti sono pochi, le condizioni igieniche discutibili e alcuni pazienti sono costretti a spostarsi nel cortile nonostante siano attaccati a una flebo.
Alcune organizzazioni internazionali, tra cui la torinese Comitato Collaborazione Medica, hanno cominciato a sviluppare progetti per migliorare le strutture sanitarie locali, tra molte difficoltà. Uno dei problemi più grossi per le comunità locali continua però a riguardare l’altissimo tasso di mortalità materna e infantile registrato in Sud Sudan – 1 donna su 30 rischia di morire per cause legate alla gravidanza o al parto, 1 bambino su 10 muore prima di raggiungere i 5 anni – che non dipende solo dall’arretratezza delle strutture sanitarie. In molte comunità la tradizione del parto in casa è molto forte, e lo è altrettanto la diffidenza verso la medicina e le cure fornite dalle strutture mediche. Spesso, inoltre, le cliniche sono molto lontane e difficili da raggiungere a causa del pessimo stato delle strade e dell’alto costo dei trasporti.
Manyel Agup, del dipartimento della Salute della contea di Awerial
Daniel Akec, impiegato del dipartimento della Salute della contea di Awerial, nello stato sud-sudanese di Laghi, ha parlato del problema della mortalità materna e infantile e di come il governo locale sta provando a superarlo:
«Ricorriamo anche al sistema degli incentivi: durante le visite pre-natali le mamme ricevono un kit con oggetti utili per i loro bambini, come zanzariere, sapone o coperte. Purtroppo il nostro governo non è ancora strutturato e per ora ci appoggiamo alle ONG ma un giorno, non so ancora quando, diventeremo autonomi. La pianificazione famigliare, che sarebbe uno strumento utile, è ancora un argomento molto difficile da affrontare, soprattutto in periodo di guerra: avere molti figli è un segno di forza e di potere che garantisce il rispetto all’interno della comunità.»
Sul sito di “From War to Life” sono state pubblicate anche alcune fotografie scattate direttamente dai membri delle comunità a cui appartengono le donne incinte che si sono rivolte alle strutture sanitarie della contea di Awerial. Le foto sono state scattate con alcune macchine fotografiche usa e getta donate alla popolazione locale: sono di bassa qualità ma interessanti perché raccontano la vita quotidiana delle donne incinte e delle loro famiglie nei villaggi del Sud Sudan centrale.
All’interno di ogni immagine c’è la storia della famiglia fotografata