Joy to the world
Anni passati a cercare di capire se c'era un approccio innovativo e originale nel giornalismo del Post, e alla fine l'abbiamo trovato
di Luca Sofri
Quando nacque il Post, quasi sei anni fa, eravamo cinque: siamo cresciuti di numero nel tempo, ma abbiamo mantenuto un’abitudine complice a stare molto insieme, e per esempio andare quasi sempre a pranzo tutti insieme: quando in uno dei locali del quartiere, quando facendo la spesa e ricavando un angolo dove sbriciolare in redazione, quando su una panchina del parco.
Così era almeno fino a qualche mese fa, prima dell’estate.
Secondo alcune ricostruzioni è stato il crescente numero di persone e collaboratori occasionalmente in redazione a far saltare l’unanimità di menù: mettersi d’accordo in dieci-dodici diventa più complicato.
Secondo me, invece, è stato il Joylent. Quella del Post è infatti probabilmente la prima redazione giornalistica alimentata a Joylent. Anni passati a cercare di capire se c’era un approccio innovativo e originale nel giornalismo del Post – facciamo cose abbastanza tradizionali, cercando di farle bene – e alla fine l’abbiamo trovato: la prima redazione giornalistica alimentata a Joylent.
È cominciato tutto quest’estate. In realtà avevamo discusso del Joylent – nella sua versione americana che si chiama Soylent – quando era stato raccontato in un lungo articolo del New Yorker del 2014 intitolato “La fine del cibo?“. Come il Post ha spiegato poi in un articolo di inizio agosto, il Soylent è
un prodotto alimentare sostitutivo dei normali pasti. Il Soylent è una specie di beverone composto da acqua e sostanze nutrienti che con pochi sorsi soddisfa i bisogni nutrizionali ideali quotidiani di una persona.
Il Soylent è una bevanda formata da acqua e sostanze come carboidrati, zuccheri, proteine e grassi sciolti dentro. Secondo chi la produce – e anche la grandissima parte dei nutrizionisti interpellati – è un valido sostituto degli altri cibi: è stato pensato e progettato per soddisfare tutti i requisiti nutrizionali di una dieta sana.
Ad agosto la redazione milanese del Post si svuota un po’: chi va in vacanza, chi lavora da luoghi alternativi, quest’anno a ferragosto in via Bertani erano in tre, tutti maschi, età tra i 24 e i 31. E hanno letto che in Olanda era stata commercializzata una versione europea del Soylent – il Joylent, appunto – che a differenza del prodotto americano poteva essere ordinato e spedito nei paesi europei.
Ad agosto anche il ciclo delle notizie rallenta, e chi resta al Post costruisce una più robusta solidarietà da sentinelle del baluardo desolato, e insomma uno di loro – ignoro chi – ha proposto di provare il Joylent: lo ordiniamo, e per una settimana ci nutriamo solo di quello. Vediamo come va.
Lo hanno fatto. Il racconto della loro esperienza è stato l’argomento di conversazione principale man mano che rientravano tutti dalle vacanze. Si erano fatti recapitare uno scatolone pieno di buste variopinte di polverine da sciogliere in acqua per ottenere i beveroni ai gusti cioccolato, banana, fragola o vaniglia. Cioccolato ha prevalso. Niente pranzo, niente cena, solo beverone. Reazioni diverse all’inizio, chi più convinto, chi più affamato, ma dopo una settimana tre su tre soddisfatti e abituati. Io l’ho assaggiato un giorno senza pregiudizi e sapeva di Nesquik ma più diluito: e ho lasciato perdere. Altri del Post hanno rifiutato indignati anche di assaggiarlo, esibendo un armamentario retorico di variazioni intorno al “dove andremo a finire” e “io non ce la farei mai”. Invece alcuni, soprattutto i più giovani, si sono lasciati tentare, e si sono uniti a un gruppo di cinque o sei che oggi si nutrono di Joylent con grande frequenza. Nuovi ordini, scatoloni di Joylent in cui inciampiamo spesso muovendoci in redazione, maledicendone i clienti come se fossero la setta di Guilty Remnants di Leftovers.
Perché?, direte voi.
Cito le risposte ricevute: perché solleva dall’impegno del pranzo, che non è ogni giorno un festoso baccanale di manicaretti, ma spesso una necessità di affamati da soddisfare con quel che si trova nei bar della zona; perché fa risparmiare tempo (non necessariamente reinvestito in lavoro: anche a fare una passeggiata nel parco, o persino una partita di pallone, qualche giorno fa); “perché mi nutro meglio di come farei col cibo solido e sono sazio senza quella sensazione di pesantezza di quando ci si alza da tavola”. E infine per una ragione non da poco per dei ventenni al primo stipendio, affitti da pagare e costi della vita milanesi: per risparmiare. Un pasto costa neanche due euro, meno di qualunque alternativa.
Il che apre riflessioni interessanti sugli usi che si potrebbero fare di prodotti di questo genere in regioni o situazioni con crisi o emergenze alimentari. “La fine del cibo”, insomma, non era un titolo così assurdo. E non stiamo parlando di futuri fantascientifici o americanate da Silicon Valley: credetemi, che son qui che pranzo da solo al giapponese.