L’ultimo posto al mondo con ebola
In Guinea ci sono stati sette nuovi casi e il rischio che inizi una nuova epidemia è considerato realistico
Dopo quasi 22 mesi e 11.287 morti, la situazione relativa all’epidemia di ebola in Africa occidentale è molto migliorata rispetto a un anno fa. In Sierra Leone – dove sono morte 3.952 persone – lo scorso agosto è stata festeggiata la dimissione dell’ultima paziente guarita dal virus, e lo scorso 7 novembre l’Organizzazione Mondiale della Sanità ha dichiarato che il paese è libero da ebola. In Liberia – dove sono morte 4.808 persone – gli ultimi pazienti senza più segni di ebola sono stati dimessi a fine luglio. In Guinea, invece, che con Liberia e Sierra Leone è stato uno dei paesi più colpiti dalla recente epidemia, sono stati segnalati sette nuovi casi nelle ultime settimane, l’ultimo lo scorso 1 novembre.
Le recenti infezioni sono cominciate a metà settembre e riguardano soprattutto la zona di Tana, un piccolo centro vicino al confine con la Sierra Leone nella regione di Kindia. Qui qualche giorno fa è arrivato in visita il primo ministro Mohamed Said Fofana che ha parlato di fronte ai 300 abitanti: «Chiedo la collaborazione della popolazione. Ebola è stata debellata ovunque, tranne che qui. Gli occhi del mondo sono puntati su Tana», ha detto.
La Guinea è il paese in cui sono morte meno persone nella recente epidemia e quello in cui il contagio è stato meno intenso. Ma è anche il paese in cui, per gli stessi motivi, il sistema di monitoraggio è stato più debole («In Guinea non abbiamo mai avuto cadaveri per le strade» ha detto Ranu Dhillon, funzionario del governo). Il rischio che scoppi una nuova epidemia, scrive il New York Times, è molto realistico.
Mentre altre nazioni hanno adottato procedure rigide e severe (hanno messo in quarantena gli amici e i parenti delle vittime, per esempio), in Guinea è stato richiesto solo un controllo due volte al giorno per misurare la febbre e altri sintomi. Nel resto del tempo, chi aveva avuto contatti con i contagiati era libero di spostarsi. Diverse organizzazioni che lavorano da quelle parti, sia internazionali che locali, hanno raccontato di guardie ai checkpoint che hanno contatti diretti e senza protezione per misurare la febbre, di operatori sanitari che usano le mani nude per toccare potenziali contagiati. Hanno raccontato che i figli di persone che avevano contratto il virus giocavano liberamente per la strada con altri bambini, che una donna sotto monitoraggio aveva partorito in casa e che il pavimento era stato lavato dagli operatori umanitari senza guanti.
In tutta la regione, ha spiegato un funzionario dell’OMS, devono essere mantenuti alti livelli di vigilanza e la capacità di rispondere con rapidità a potenziali nuovi casi. Ma non è semplice. Spesso si tratta di comunità isolate che per la prima volta hanno contatti con il virus e con quello che comporta: faticano a seguire le procedure necessarie e non si fidano degli operatori internazionali. La preparazione delle autorità sanitarie locali – sia dal punto di vista delle strutture per l’accoglienza, sia sulla possibilità di intervenire nei villaggi dove si verificavano i primi contagi – è infine piuttosto scarsa; ed è difficile tenere sotto controllo il contagio soprattutto nelle aree rurali.
A distanza di quasi due anni dai primi casi, i ricercatori sono ancora al lavoro per ricostruire con certezza quale possa essere stato il primo focolaio della malattia che ha poi portato all’epidemia nell’Africa occidentale. Uno dei primi casi certi è stato registrato nel dicembre del 2013 nei pressi di Guéckédou, tra le foreste della Guinea poco distante dal confine con Liberia e Sierra Leone. Si iniziò a parlare di emergenza a giugno dello scorso anno, quando furono stimate almeno 759 infezioni e la morte di oltre 450 persone in tutta l’Africa occidentale. Il picco fu raggiunto nei mesi seguenti, portando al più grande contagio di ebola nella storia.