I videogiochi contro la depressione
Possono essere utilissimi: decine di studi mostrano che le parti del cervello stimolate dai giochi sono esattamente quelle che determinano sintomi di ansia e depressione
di Jane McGonigal – Slate
Jane McGonigal è una ricercatrice ed è l’autrice del libro “Superbetter: A Revolutionary Approach to Getting Stronger, Happier, Braver, and More Resilient—Powered by the Science of Games”.
Qual è l’opposto di “gioco”?
La risposta più istintiva probabilmente è: “lavoro”. Ma c’è una risposta migliore a questa domanda, che potrebbe essere la chiave per lo sviluppo di nuove terapie nel campo dei disturbi mentali. L’opposto di “gioco” non è “lavoro”. È “depressione”.
Il primo a suggerire questa tesi è stato Brian Sutton-Smith, uno stimato psicologo esperto di giochi che è morto quest’anno. Sutton-Smith divenne particolarmente noto negli anni Cinquanta e Sessanta per i suoi studi sugli adulti e i bambini alle prese col gioco. Osservò che la gran parte delle persone quando gioca sente una maggiore autostima rispetto al normale, più energia fisica e forti emozioni positive, come l’entusiasmo e la curiosità. È il perfetto contrario della depressione. Le persone clinicamente depresse sentono di non avere l’energia necessaria per affrontare le cose di tutti i giorni. Sono molto pessimiste, in particolare per quel che riguarda le loro doti e capacità. E non provano emozioni positive.
Sutton-Smith portò avanti gran parte delle sue ricerche quando ancora la tecnologia non permetteva a lui e ai suoi colleghi di esaminare il cervello di un paziente alla ricerca di flussi sanguigni e tratti comuni che si potessero associare al benessere e ai disturbi mentali. E lavorò anche molto tempo prima dell’esplosione dei videogiochi. Oggi più di 1,2 miliardi di persone nel mondo giocano ai videogiochi con una certa regolarità. Grazie a una serie di studi – sempre di più, negli ultimi tempi – oggi sappiamo che la sua intuizione, la tesi per cui l’opposto del gioco è la depressione, è una perfetta descrizione neurologica per descrivere cosa succede a questi 1,2 miliardi di persone che usano i videogiochi.
Negli ultimi anni sono stati realizzati molti studi scientifici sui videogiocatori, comprese risonanze magnetiche funzionali: esami che monitorano l’attività neuronale e la funzionalità del cervello. I risultati di questi studi mostrano che quando giochiamo ai videogiochi, due parti del cervello vengono stimolate costantemente e con intensità: quella associata alle motivazioni e al raggiungimento degli obiettivi (quella a cui si fa rifemento con “sistema della ricompensa” o della “gratificazione”) e quella associata all’apprendimento e alla memoria (cioè l’ippocampo). Effettivamente ha senso, se pensate a cosa succede quando giochiamo a un videogioco: siamo costantemente impegnati a raggiungere un obiettivo, che sia risolvere un puzzle, trovare oggetti nascosti, arrivare al traguardo o segnare un gol, e questo concentra la nostra attenzione e crea un senso di determinazione e motivazione. Più ci avviciniamo all’obiettivo e al potenziale successo, più si attiva la parte relativa alla gratificazione.
D’altra parte tutti i videogiochi – non solo quelli espressamente didattici – sono istruttivi e fanno imparare qualcosa ai giocatori. Il primo livello di ogni gioco è sempre facile, perché chi gioca non ha ancora molta dimestichezza con le regole, i comandi, il contesto. Il processo di apprendimento comincia subito: il giocatore apprende le regole, prova strategie diverse e migliora le sue capacità. Avviene una cosa fondamentale: man mano che si va avanti in ogni videogioco, tutto diventa più difficile. Questo richiede ai giocatori di imparare e migliorare costantemente. L’esperienza di migliorare costantemente in qualcosa è probabilmente la caratteristica più tipica e gratificante dei videogiochi. Quando non c’è più niente da imparare, e si è diventati così bravi che tutto risulta facile, di solito smettiamo di giocare. È questo il motivo per cui gli adulti non giocano a tris! Finché il videogioco ci richiede di diventare più bravi, il nostro ippocampo sarà coinvolto e sollecitato.
Se vi siete mai chiesti com’è possibile che dopo 20 disastrosi fallimenti a Angry Birds o Candy Crush vi venga voglia di provare un’ultima volta – “l’ultima e basta” – la ragione è questa specifica attività neurologica. Chi non ha familiarità con i videogiochi può giudicare questo comportamento ossessivo o irrazionale. Ma è esattamente il tipo di comportamento tenace che ci si deve aspettare da qualcuno il cui cervello è concentrato su un obiettivo e sul miglioramento delle proprie capacità.
Ora le cose si fanno interessanti, soprattutto per i ricercatori interessati come me ai legami tra il gioco e la depressione. Quelle due parti del cervello, l’ippocampo e la regione della ricompensa, sono le stesse due parti cronicamente sottostimolate in chi è clinicamente depresso. Col tempo addirittura diventano più piccole. In altre parole: giocare ai videogiochi è letteralmente l’opposto della depressione.
Quando la parte della ricompensa non è stimolata, non vediamo nessun potenziale successo davanti a noi. Il risultato è che siamo pessimisti, senza motivazioni per fare qualsiasi cosa. Inoltre una riduzione del flusso sanguigno verso l’ippocampo – per non parlare di un restringimento della sua materia grigia – è associato con difficoltà di apprendimento e di elaborazione delle strategie e degli strumenti che servono ad affrontare le difficoltà. Questo fa diventare complicato migliorare in qualsiasi cosa, oltre a renderci depressi.
A questo punto, non stupisce che diversi studi scientifici nel tempo abbiano mostrato l’esistenza di un legame tra i videogiochi – soprattutto in chi li usa per più di 20-30 ore la settimana – e la depressione. All’inizio i ricercatori pensavano che i videogiochi causassero la depressione, ma oggi l’interpretazione più comune tra i ricercatori che ho consultato è che molti videogiocatori depressi trovano sollievo in quell’attività: lo fanno per tentare di curarsi. Quando giocano si sentono così sollevati che più si sentono depressi e più giocano.
Curarsi con i videogiochi naturalmente può essere pericoloso. Se una persona depressa lo fa per fuggire dalla realtà – per non pensare ai suoi problemi, bloccare le sue emozioni ed evitare di affrontare situazioni stressanti – alla lunga possono subentrare alcune di quelle conseguenze negative che i ricercatori hanno comunque associato all’uso intenso di videogiochi, come l’ansia e l’isolamento sociale. Se più ti senti depresso e più giochi, meno tempo e impegno dedichi a risolvere i tuoi problemi della vita reale. Quei problemi quindi peggiorano e allora passi ancora più tempo a giocare: è un circolo vizioso. Se conoscete qualcuno che gioca ossessivamente ai videogiochi, giorno e notte, quasi sicuramente lo fa per questo motivo. I ricercatori hanno riscontrato che “l’uso dei videogiochi per fuggire dalla realtà” è il primo sintomo in assoluto tra quelli che indicano l’esistenza di una potenziale dipendenza da videogiochi, a volte patologica.
Il dato allarmante è che secondo un altro studio il 41 per cento di chi gioca frequentemente dice di farlo “per fuggire dalla realtà”. Genitori, insegnanti e coniugi benintenzionati spesso peggiorano la situazione invitando i videogiocatori a “spegnere la console e fare qualcosa nella vita” o “smettere di perdere tempo”. Questo tipo di pungolo, per quanto benintenzionato, ha effetti negativi sui videogiocatori: li convince che giocare non ha senso né un ruolo nella vita di tutti i giorni. E quindi li spinge a giocare ancora di più, perché conferma che i videogiochi sono una fuga dalla realtà.
Giocare per migliorare il nostro umore non dev’essere necessariamente un problema. La chiave è scegliere un gioco che abbia uno scopo positivo: sviluppare la creatività (come Minecraft), imparare a risolvere nuovi problemi (come Portal), rafforzare i rapporti con amici e famiglia (come Words With Friends), rialzarsi e ricominciare dopo i fallimenti (come Call of Duty), migliorare la propria funzionalità sotto stress (come League of Legends).
I ricercatori hanno riscontrato che l’uso di questi giochi contribuisce a migliorare l’autostima e costruire le qualità preziose che portano alla risoluzione dei problemi. Ancora più importante, questi giochi hanno conseguenze opposte alla fuga dalla realtà: migliorare in qualcosa – qualsiasi cosa! – aiuta a essere meno depressi, a stare più sul pezzo ed essere più resistenti nella vita quotidiana. Questo perché ogni volta che giochi, ti rendi conto delle risorse mentali che impieghi e di quanto migliori. Non pensi di stare fuggendo dalla realtà; al contrario ti rendi conto di stare facendo qualcosa che può tornarti utile nella realtà.
Non è che allora bisogna decidere di giocare a giochi diversi: basta decidere di concentrarsi su come i videogiochi ci migliorano. Facendolo, aumentano le possibilità di capire che le qualità che i videogiochi sviluppano in noi possono essere preziose nella vita quotidiana. Come ho scritto nel mio libro Superbetter, più ti concentri su come i videogiochi ti migliorano, più facile diventa attivare la parte del cervello coinvolta dai giochi – l’ippocampo e la ricompensa, l’opposto della depressione – anche quando si affrontano i veri ostacoli della vita quotidiana.
Ho sperimentato questa ipotesi nel mio lavoro di ricerca degli ultimi cinque anni, per vedere se davvero le persone che soffrono di depressione, ansia e traumi che coinvolgono il cervello potessero imparare giocando nuovi modi per pensare e affrontare i problemi delle loro vite. Fin qui i risultati sono stati molto significativi. Durante uno studio condotto lo scorso anno con i ricercatori dell’università della Pennsylvania, abbiamo riscontrato che basta trascorrere 30 giorni con un coach che le inviti a pensare ai problemi della vita come agli ostacoli di un gioco perché persone clinicamente depresse possano sentirsi meno ansiose, di umore migliore, con una maggiore autostima e fiducia in se stessi e nelle proprie capacità. In un test clinico condotto all’inizio di quest’anno, finanziato dai National Institutes of Health e realizzato dal centro per la ricerca medica dell’università dell’Ohio, abbiamo riscontrato una simile riduzione della depressione e miglioramenti dell’umore in pazienti con traumi cerebrali di moderata entità che avevano seguito lo stesso programma speciale di “addestramento” (che si chiama, appunto, SuperBetter).
Sono entusiasta delle potenzialità di un approccio del genere per aiutare le persone a diventare più forti, mentalmente ed emotivamente. Ma non è che serva per forza un programma speciale come SuperBetter per beneficiare dalla tesi alla sua base, cioè che l’opposto della depressione è il gioco. Tutti possono imparare a essere più forti davanti agli ostacoli: per cominciare basta pensare a come i giochi ci rendono migliori. Sebbene non sempre la vita di tutti i giorni stimoli il nostro cervello come lo stimolano i videogiochi, tutti possono cominciare a vedersi e descriversi come qualcuno orientato verso l’obiettivo, resistente davanti alle difficoltà, sempre pronto a imparare e migliorare.
Se conoscete qualcuno che gioca dalla mattina alla sera, parlate con lui o con lei di come i videogiochi possono renderci migliori. Ecco una serie di domande importanti che potreste chiedere a chi gioca molto – oppure a voi stessi, se siete tra questi: cosa rende difficile questo gioco? Quali capacità hai bisogno di sviluppare per giocarci? In cosa sei migliorato da quando hai cominciato a giocarci? Esiste un aspetto della tua vita in cui potresti utilizzare questa tua qualità per risolvere un problema o raggiungere un obiettivo?
A quel punto, però, accertati di fare anche la sola e più importante domanda che si possa mai fare a un giocatore, per dimostrargli che stare insieme è sempre meglio di fuggire, e perché magari migliorare qualcosa è utile anche a te:
Giochiamo insieme?