Il Village Voice ha un nuovo proprietario
Lo storico settimanale del Greenwich Village di New York è stato comprato da un ricco imprenditore ed ex lettore, che vuole riportarlo all'antica gloria
Poche settimane fa il Village Voice – uno storico settimanale nato nel 1955 nel Greenwich Village, un quartiere di New York che allora era abitato soprattutto da artisti e intellettuali di sinistra – è stato comprato da Peter Barbey, un 58enne imprenditore della famiglia Barbey, che secondo i dati Forbes è la 48esima famiglia più ricca degli Stati Uniti. La famiglia Barbey già controlla o ha controllato alcuni giornali e alcune grandi marche d’abbigliamento, tra cui Timberland, Lee Jeans e North Face.
Barbey e Voice Media Group – la società che ha ha venduto il Village Voice – non hanno reso noti i dettagli dell’accordo, ma l’acquisto di Barbey è stato piuttosto discusso dai giornali statunitensi e soprattutto dalla stampa newyorkese: ne ha parlato il New York Times e più di recente il New Yorker, che ha spiegato perché l’unione tra Barbey e il Village Voice – noto anche come il Voice – è interessante: il settimanale e “il rampollo di una delle più ricche famiglie degli Stati Uniti” hanno delle affinità e hanno entrambi un interessante passato, che potrebbe tradursi in un proficuo rilancio del Voice.
Il Village Voice negli ultimi anni è meno conosciuto e diffuso, in passato è però stato piuttosto famoso e capace di proporsi come un settimanale peculiare, che – scrive Lizzie Widdicombe – «nei suoi migliori anni ha saputo incanalare lo spirito di Greenwich Village: controculturale ed esuberante». Nell’ottobre del 1955 il Voice fu fondato e distribuito gratuitamente da Dan Wolf, Ed Fancher e Norman Mailer – uno scrittore della Beat Generation – in un appartamento del Greenwich Village, che si trova nel sud di Manhattan, sopra a Soho e Tribeca.
All’inizio il Voice si occupò di notizie che riguardavano solo il Greenwich Village, negli anni Sessanta iniziò invece a coprire eventi che riguardavano tutta Manhattan e tutta New York: si impose come un giornale con un punto di vista newyorkese ma non necessariamente solo interessato a New York. Dal 2005 – anno in cui Voice Media Group compro il Voice – molti dei più famosi collaboratori del settimanale (che ha anche un suo sito) se ne sono andati o sono stati licenziati. Widdicombe scrive che negli ultimi dieci anni il Voice è diventato un’ombra di quello che è stato: è «depoliticizzato, insipido, poco curioso». Nel frattempo anche il Greenwich Village è cambiato: dove un tempo dominava la controcultura di sinistra ci sono oggi boutique di Marc Jacobs e negozi di dolci, scrive Widdicombe.
Barbey ha ora 58 anni, Widdicombe scrive però che scoprì il giornale nel suo periodo migliore: gli anni Settanta. In quegli anni Barbey era uno studente di un college del Massachusetts, con i capelli lunghi e una passione per la musica di Eric Clapton e dei Grateful Dead. «Ero un ragazzo di Boston e il Voice fu la mia New York», ha detto Barbey al New Yorker. Barbey ha spiegato che scoprì il Voice grazie a un compagno di stanza, appassionato di Lou Reed e David Bowie. Il compagno di Barbey lo introdusse al Voice, alla controcultura di quel periodo, a un diverso approccio all’arte e a una musica che Barbey definisce “pre-punk”. Barbey poi andò a studiare in Arizona e si trasferì infine a Reading, in Pennsylvania, dove ha diretto per anni il Reading Eagle, il giornale che la sua famiglia aveva posseduto per otto generazioni.
Barbey è quindi uno dei lettori dello storico Voice, oltre che un imprenditore con esperienza nell’editoria. Robert Christgau, uno dei più famosi ex collaboratori di Voice, ha detto di Barbey che «ha un profilo promettente. È ricco, ama Voice, gli piacciono i giornali. È un buon inizio». Barbey – che sta cercando casa a New York, nel Greenwich Village ma non solo – ha detto che spera di rilanciare Voice ritrovando un punto di vista originale e newyorkese, cercando di raccontare lo Zeitgeist di New York, una sua peculiarità culturale e attuale. Negli ultimi anni di Village Voice si è parlato soprattutto per le polemiche relative agli annunci – spesso a sfondo sessuale – ospitati dal giornale. Barbey ha spiegato al Wall Street Journal che intende cambiare le cose: «Le donne adulte possono fare le escort, non ho problemi a riguardo. Ma non è il tipo di pubblicità che si addice a quello che abbiamo intenzione di fare».