Per cambiare sesso all’anagrafe non è necessario l’intervento chirurgico
Lo ha stabilito la Corte Costituzionale, interpretando la legge del 1982 sulla “rettificazione di attribuzione di sesso”
La Corte Costituzionale ha stabilito in una sentenza depositata il 5 novembre che per il cambio di sesso all’anagrafe non è necessario alcun trattamento chirurgico. La Corte ha giudicato infondata la questione di legittimità presentata dal tribunale di Trento sulla legge relativa alla rettificazione di sesso all’anagrafe.
Il caso era stato posto nel 2014: una persona che non ha figli, non è sposata e che ha dichiarato «di aver percepito, sin da quando aveva 7 anni, un’identità di genere maschile», pur non essendo anatomicamente un uomo, si era rivolta al tribunale civile di Trento chiedendo la rettifica di attribuzione di sesso, la modifica dell’atto di nascita e l’autorizzazione in futuro all’intervento chirurgico, ma senza ritenerlo per ora necessario.
Il tribunale di Trento aveva rimesso gli atti ai giudici costituzionali, sollevando una questione di legittimità sull’articolo 1 della legge numero 164 del 1982 che contiene norme in materia di “rettificazione di attribuzione di sesso”: è la legge che consente il cambio anagrafico dei documenti successivamente agli interventi chirurgici che comportano il cambio di genere. E dice:
«La rettificazione si fa in forza di sentenza del tribunale passata in giudicato che attribuisca ad una persona sesso diverso da quello enunciato nell’atto di nascita a seguito di intervenute modificazioni dei suoi caratteri sessuali».
La sentenza della Consulta, redatta dal giudice Giuliano Amato, dice che «il raggiungimento dello stato di benessere psico-fisico della persona si realizza attraverso la rettificazione di attribuzione di sesso, e non già con la riassegnazione chirurgica sul piano anatomico». Nel testo si richiamano le sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo che hanno riconosciuto che il diritto all’identità di genere rientra a pieno titolo nella tutela prevista dall’articolo 8 della CEDU, la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che stabilisce il rispetto della vita privata e familiare. E in conclusione si dice che la mancanza di un riferimento esplicito, nel testo normativo, alle modalità (chirurgiche, ormonali, o conseguenti ad una situazione congenita), attraverso cui si realizza la modificazione, «porta ad escludere la necessità, ai fini dell’accesso al percorso giudiziale di rettificazione anagrafica, del trattamento chirurgico».
La Corte ha fatto anche riferimento a un’altra recente sentenza. Lo scorso luglio la Corte aveva esaminato il caso di una persona che, autorizzata all’intervento chirurgico, vi aveva poi rinunciato ma aveva chiesto comunque la rettificazione dello stato civile. Dopo il rifiuto del ricorso sia da parte del tribunale di Piacenza che della corte d’appello di Bologna, la Cassazione aveva stabilito che per ottenere il cambio di sesso all’anagrafe l’intervento chirurgico di adeguamento degli organi sessuali non era obbligatorio.
Un pezzo della legge 164, l’articolo 4 sul cosiddetto “divorzio imposto”, era stato smontato dalla stessa Consulta nel 2014. La Corte Costituzionale aveva infatti dichiarato incostituzionale la norma che prevedeva l’annullamento del matrimonio nel caso in cui uno dei due coniugi cambi sesso. La questione era stata posta nel 2009 da una coppia di Bologna il cui matrimonio, celebrato nel 2005, era stato annullato dopo che lui aveva deciso di diventare donna.