L’assoluzione di Calogero Mannino
Come si è arrivati alla sentenza che secondo molti «mina alle fondamenta» il processo in corso a Palermo sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia
L’ex ministro della DC Calogero Mannino, 76 anni, è stato assolto dal tribunale di Palermo in uno dei processi sulla cosiddetta trattativa Stato-mafia «per non avere commesso il fatto»: si tratta della formula contenuta nell’articolo 530 secondo comma del codice di procedura penale, che scatta quando la prova «manca, è insufficiente o è contraddittoria», e che ricalca la vecchia assoluzione per insufficienza di prove. La procura aveva chiesto per Mannino una condanna a nove anni, accusato di aver dato il primo suggerimento agli ufficiali come Mario Mori o Giuseppe De Donno a «trattare» con il clan mafioso dei Corleonesi. Mannino era imputato per il reato di “violenza o minaccia a un corpo politico” previsto dall’articolo 338 del codice penale. Il suo processo era cominciato due anni fa; Mannino aveva chiesto il rito abbreviato.
Dopo la lettura della sentenza, Mannino ha parlato di «fine di un calvario». La procura ha detto che vuole attendere la lettura delle motivazioni (che arriveranno fra tre mesi), ma ha anche anticipato che molto probabilmente ricorrerà in appello contro l’assoluzione. Diversi giornali commentano oggi che Calogero Mannino rappresentava nell’indagine il punto d’inizio della presunta trattativa Stato-mafia e che con la sua assoluzione il processo – molto discusso e criticato negli ultimi anni – «è minato alle fondamenta». D’altra parte l’assoluzione «per non avere commesso il fatto» contribuisce a sostenere in qualche modo le argomentazioni della procura: il fatto esiste e quindi si può sostenere che la trattativa ci sia stata.
Lo stesso reato di cui era accusato Mannino è contestato anche agli altri imputati del caso sulla trattativa, coinvolti in un processo parallelo che si sta svolgendo a Palermo. Gli imputati sono dieci: tra loro ci sono gli ufficiali delle forze dell’ordine Antonio Subranni, Mario Mori e Giuseppe De Donno, l’ex senatore del PdL Dell’Utri e l’ex ministro Mancino (accusato di falsa testimonianza); nello stesso processo sono imputati anche i mafiosi Totò Riina, Bernardo Provenzano, Antonino Cinà e Leoluca Bagarella.
Il contesto della cosiddetta “trattativa” è quello dell’inizio degli anni Novanta. Gli anni dell’omicidio del parlamentare siciliano della DC Salvo Lima (12 marzo 1992) e dell’imprenditore Ignazio Salvo (17 settembre 1992), delle stragi di Capaci (23 maggio 1992) e di via D’Amelio (19 luglio 1992) contro i magistrati Giovanni Falcone e Paolo Borsellino, delle bombe in via dei Georgofili a Firenze (27 maggio 1993) e in via Palestro (27 luglio 1993) a Milano, delle autobombe esplose a San Giovanni in Laterano e a San Giorgio in Velabro, a Roma, e del fallito attentato contro il giornalista Maurizio Costanzo (14 maggio 1993). C’è la sentenza della Cassazione del gennaio 1992 nel cosiddetto Maxiprocesso, che condannava Totò Riina e molti altri capi mafiosi all’ergastolo, e c’è l’applicazione dell’articolo 41 bis della legge sull’ordinamento penitenziario che prevede carcere duro e isolamento per i detenuti accusati di appartenere a organizzazioni criminali.
Secondo diversi pentiti Totò Riina progettò a quel punto di punire alcuni politici, tra loro Mannino. L’ipotesi dei magistrati della procura di Palermo responsabili delle inchieste sulla presunta “trattativa Stato-mafia” – a partire dalle dichiarazioni di alcuni mafiosi – è che dopo gli anni 1992 e 1993 lo Stato abbia cercato di raggiungere con Cosa Nostra un accordo che avrebbe previsto la fine della stagione stragista in cambio di un’attenuazione delle misure detentive previste dall’articolo 41 bis. E che Mannino fu l’ispiratore dell’inizio della trattativa.
Dopo l’apertura nel 1998 di un’inchiesta a Firenze, le indagini furono trasferite alle procure di Caltanissetta e Palermo. Il processo sulla presunta “trattativa” è di competenza di Palermo, mentre Caltanissetta indaga sulle stragi di Capaci e via D’Amelio. La prima udienza del processo si è tenuta a Palermo il 27 maggio del 2013.
In questi anni più volte sono stati espressi dubbi sul fatto che esistano prove dell’esistenza di questa “trattativa” che vadano oltre le dichiarazioni rese molti anni dopo da ex mafiosi e personaggi come minimo di dubbia affidabilità, come Massimo Ciancimino. Il titolare del procedimento dall’origine delle indagini e fino al deposito della memoria conclusiva è stato Antonio Ingroia, che il 29 ottobre del 2012 ha tenuto la sua ultima udienza nel processo sulla trattativa decidendo prima di accettare un incarico per l’ONU in Guatemala e poi di tornare dopo due mesi in Italia per candidarsi, senza successo, alla presidenza del Consiglio con la coalizione politica Rivoluzione Civile. Ingroia oggi nel processo rappresenta come avvocato l’Associazione dei familiari delle vittime della strage di via dei Georgofili, ammessa come parte civile. L’accusa è ora rappresentata in aula dai pm Nino Di Matteo, Francesco Del Bene e Roberto Tartaglia.