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  • Mercoledì 4 novembre 2015

La grande trasformazione di Delhi

Com'è cambiata la metropoli indiana in pochi anni, raccontato nell’ultimo libro di Rana Dasgupta

È uscito per Feltrinelli il libro Delhi, di Rana Dasgupta, scrittore inglese di origini indiane, tradotto in italiano da Silvia Rota Sperti. Dasgupta racconta la grande trasformazione avvenuta dall’inizio del secolo a Delhi, dovuta in particolare ai processi di globalizzazione e all’apertura economica dell’India, che hanno trasformato il paese socialmente, economicamente e culturalmente. Delhi è diventata così la grande metropoli che è adesso, in cui baracche e mercati sono stati sostituiti da condomini e centri commerciali; questa trasformazione è raccontata da Dasgupta attraverso incontri con personaggi di ogni genere, ognuno rappresentativo di questo cambiamento.

In questo estratto il racconto di quando nel 2000 Rana Dasgupta lasciò New York, dove viveva, per andare a Delhi: doveva essere un breve soggiorno che poi si è prolungato fino a oggi.

***

All’inizio di questo secolo lavoravo per una società di consulenza di marketing con sede a New York. Il lavoro stava diventando un peso: ero sempre più assorbito dal romanzo che stavo cercando di scrivere di sera, e in più mi ero innamorato di una donna che viveva dall’altra parte del mondo, a Delhi. E così, alla fine del 2000 ripetei, in senso contrario, il viaggio di mio padre.
Arrivai con una valigia e uno scatolone pieno di appunti e articoli che avevo raccolto per il mio libro. Lasciai ogni altra cosa in mio possesso a casa di uno zio, nel New Jersey. Non pensavo che sarei stato via molto. Non sapevo quanto ci volesse per scrivere un romanzo, ma di sicuro credevo non più di sei mesi. Non avevo intenzione di fermarmi a Delhi: ci ero passato alcune volte da piccolo per andare in visita a Calcutta, e me la ricordavo come un caos inquinato e per nulla attraente. Ero convinto che sarei riuscito a persuadere la mia amata ad abbandonarla per la scintillante Manhattan.
Ma questi pensieri si dissolsero non appena arrivai a Delhi. Sarebbe troppo semplice dire che mi innamorai della città – dato che la detestai in egual misura –, ma di sicuro fu un incontro travolgente. Un’attrazione fatale, come se il fascino di Delhi andasse oltre una semplice questione di gusto, di piacere o avversione – perché nel 2000, tutto ciò che era sicuro e rodato nei luoghi in cui avevo vissuto prima, qui era in turbolenta preparazione, e la città era un vortice di profezie e possibilità. Ero finito, per puro caso, in uno dei grandi pasticci della nostra epoca e, pur non avendo mai pensato di farlo, mi fermai.
Ed eccomi ancora là – cioè, qua. Più di dieci anni dopo, mio zio nel New Jersey continua a spostare le mie cose polverose di scantinato in scantinato ogni volta che cambia casa.

Al mio arrivo, Delhi usciva da un decennio di cambiamenti dovuti alla “liberalizzazione” del 1991, vale a dire alle riforme che portarono allo smantellamento dell’economia chiusa e centralizzata che c’era fin dai tempi dell’indipendenza e che aprirono il paese a flussi globali di prodotti, mezzi di comunicazione e capitali.
Quanto alla vita in città, il decennio precedente al mio arrivo aveva subìto soprattutto quelli che si potrebbero chiamare dei cambiamenti nel suo “software”, mentre l’“hardware” era rimasto relativamente intatto. Nelle case del ceto medio risuonavano nuovi programmi televisivi commerciali (e stranieri) e sogni prima sconosciuti aleggiavano nelle stanze imbiancate, ma la loro architettura originale – balconi per l’inverno e stanze oscurate per l’estate – era rimasta invariata. E anche se ora si potevano comprare jeans d’importazione un tempo accessibili solo a chi aveva contatti all’estero, i negozi si trovavano ancora nei vecchi quartieri affollati di Connaught Place – la galleria commerciale d’epoca britannica – o negli sgangherati mercati comunali costruiti negli anni sessanta. Il grande tumulto di distruzione e costruzione che avrebbe caratterizzato la mia esperienza a Delhi, il furioso smantellamento di tutto quell’hardware in nome della globalizzazione – “Da città murata a città mondiale”, per usare lo slogan di uno dei principali quotidiani – doveva ancora avvenire.
Quello smantellamento avrebbe rimosso molti dei punti fermi di Delhi. Di sicuro, rimosse gli alloggi di centinaia di migliaia di poveri per far spazio a centri commerciali e complessi residenziali. Questo enorme trasferimento di ricchezza e risorse dai cittadini più poveri a quelli più ricchi trasformò molti dei primi in profughi nella loro stessa città, e rese la vita delle classi operaie in generale più rischiosa e precaria. Nel primo decennio del 2000, molte delle attività gestite dagli imprenditori più poveri furono spazzate via in nome di un ordine estetico – come gli informali chioschi dove potevi ordinare una tazza di tè caldo zuccherato per due rupie (0,04 dollari), sederti su una sedia di plastica e sentirti magicamente isolato dal turbinio di persone e traffico tutt’attorno. Ma l’ondata distruttiva abbatté anche un ingente numero di case dei ricchi che, nel loro caso, trassero vantaggio dal boom immobiliare del decennio radendo al suolo le loro proprietà e costruendo blocchi di appartamenti da mettere in vendita. Edificati per sfruttare al massimo le superfici e quindi massimizzare il prezzo di vendita, questi nuovi e austeri condomini non contemplavano le generose terrazze e i balconi dell’architettura precedente. La vita si ritirò negli interni con aria condizionata, e così facendo disfò il reticolato di conversazioni tra balcone e balcone che un tempo dominavano i pomeriggi.
Ma nel 2000 tutto questo doveva ancora avvenire, e in gran parte di Delhi la gente continuava a vivere come in un’epoca passata, in un languore importato dalle piccole città e dai villaggi dai profughi della Partizione, che si aggrappavano ancora agli ambienti abitati anni prima. Il piccolo appartamento in cui mi trovai a vivere quell’inverno era in un quartiere originariamente destinato a quei profughi, e guardando fuori potevo vederli mentre, invecchiati e avvolti nei loro scialli, sedevano immobili su tetti e balconi. Gli inverni nell’India del Nord sono rigidi e dentro le case non riscaldate e coi pavimenti di pietra, studiate per il calore estivo, c’è la stessa temperatura che fuori. I miei vicini di casa si affidavano quindi agli stessi comfort invernali dei loro antenati rurali: una tazza fumante di tè allo zenzero tra le mani e il pallido sole del pomeriggio sui volti. Mentre i figli erano al lavoro e i nipoti a scuola, questi vicini venerabili trasmettevano la serenità di un’altra epoca a tutti quelli che avevano attorno: gli uomini che acquistavano carta e vetro di scarto pedalavano senza fretta sulle loro biciclette tracciando degli archi tra le case; le grida dei venditori di ortaggi che spingevano i loro carretti per le strade chiazzate di sole sembravano calme e pazienti. A volte un’anziana donna chiamava dall’alto uno di questi uomini, chiedeva degli ortaggi e si accordava sul prezzo. Poi calava il denaro dal tetto di casa dentro un cesto legato a una cordicella; il venditore toglieva i soldi e ci metteva dentro i prodotti, e lentamente, molto lentamente, la donna recuperava il suo cesto.
Anche questa Delhi remota scomparve presto. La si ricorda a fatica, perché gli anni dopo il mio arrivo videro la costruzione di un arcipelago scintillante di caffè, ristoranti, bar e club, tanto che ora spostarsi per la città nelle sere dei fine settimana è difficile per via degli ingorghi nel traffico o degli entusiasti avventori dei bar. Ma nulla di tutto questo esisteva nel 2000, quando un anziano conservatorismo dominava le serate cittadine e la maggior parte dei quartieri era deserta dopo la chiusura dei negozi, verso le nove di sera. Di sicuro i miei vicini, che credevano nelle virtù della famiglia e dell’alzarsi presto, non sapevano cosa volesse dire andare in giro per la città di sera. Profondamente segnata dalle angosce e dagli espropri della Partizione, questa generazione del ceto medio di Delhi era frugale e diffidente verso l’esterno, e spendere soldi nei ristoranti, mangiando cibo cucinato da mani sconosciute, equivaleva a un anatema. Era la loro Delhi quella in cui arrivai, una Delhi che – a differenza della New York che avevo appena lasciato – non si sforzava di sedurre o divertire, e che a fine giornata ti mandava dritto a casa.
Come per queste persone, anche per i bohémien tra cui mi trovavo ora il divertimento serale era perlopiù domestico. Non uscivamo perché non c’era nulla da fare. Così ci riunivamo in vari appartamenti – piccoli, spogli e all’epoca poco costosi – e, in stanze annebbiate dal fumo di sigaretta, sedevamo per terra sui cuscini attorno a un gruppo variegato di bottiglie di rum e whisky e parlavamo.
Ogni conversazione ruotava attorno al presente, e fu durante quelle serate che mi resi conto di essere approdato in un luogo e in un’epoca straordinari.
Gli artisti e gli intellettuali di Delhi tra cui mi trovavo parlavano con una veemenza che non avevo mai conosciuto altrove, e che non avrei mai più ritrovato nemmeno nella stessa Delhi. Di sicuro erano individui di un’intelligenza e un’originalità eccezionali, ma l’energia dirompente dei loro dibattiti proveniva anche dalla città là fuori. Il vecchio stava morendo, il nuovo si stava preparando, e noi eravamo nel mezzo, là dove nulla era deciso e tutto era possibile. Tutti cercavano di assimilare, di immaginare come sarebbe potuta diventare la città, e la loro vita. Vivevano con la pancia vuota, nutrendosi di libri e conversazioni, perché forme di pensiero reputate formali e remote in tempi stabili diventano intime e necessarie quando ogni limite viene abbattuto. La gente ha bisogno della filosofia perché non sa come comprendere il tumulto che si porta dentro. Ha bisogno di più di quel che ha, di più idee, più parole, più linguaggio: così si tuffa nei discorsi, e poco male se non dorme la notte.
Parte di questa energia era squisitamente locale. La città stava cambiando in maniera impressionante, e c’era la sensazione che la vita sarebbe diventata meravigliosa, che si sarebbe liberata delle costrizioni del passato e che dal suo terreno sarebbero spuntati frutti nuovi e sconosciuti. Un altro intellettuale appena arrivato in città scrisse una poesia intitolata Nei primi tempi della metropolitana di Delhi, un titolo che rispecchiava sia il sentire tipico di quegli anni, sia il grande idealismo provocato dalla nuova metropolitana, che aprì la sua prima linea poco dopo il mio arrivo in città. I treni e le stazioni moderne sembravano inaugurare non solo un’epoca nuova di infrastrutture pubbliche di alto livello, realizzate – Già, anche l’India può farcela! – senza l’incompetenza o la corruzione normalmente associate a simili progetti, ma quello scivolare silenzioso sotto la città, che eludeva il chiasso battagliero delle strade di Delhi e sfrecciava agevolmente tra zone ricche e zone povere, sembrava annunciare un nuovo genere di mobilità – sociale e anche economica – in una città da sempre innamorata di confini e gerarchie.
Ma la trepidazione di quegli anni aveva una portata molto più ampia della città stessa. Scaturiva da una prospettiva universale: Quel che succederà qui cambierà il mondo intero.
Le persone che ho incontrato erano cosmopolite, e contentissime di veder crollare muri in tutta l’India. Disprezzavano il nazionalismo e amavano i nuovi ricchi che li contattavano tramite Internet. Ma, fedeli al loro scetticismo – e alla storia del pensiero antimperialista di quella parte del mondo –, erano anche critici riguardo alle basi economiche e sociali delle società occidentali – e l’ultima cosa che volevano da questa fase di apertura era l’instaurarsi di una società simile in India. Gran parte della loro ispirazione intellettuale proveniva dai critici interni al capitalismo occidentale: dai teorici americani del software libero, dal movimento squatter olandese, da artisti britannici che si opponevano al cibo corporativistico e alle culture della proprietà, da studiosi di legge di Harvard e Oxford che prospettavano alternative al possesso di spunti, immagini e idee. Non potevano esserci campi d’indagine più importanti per l’India post-liberalizzazione, dove la questione principale era, per l’appunto, quella della proprietà. In diversi ambiti della vita indiana, le risorse fondamentali – certi tipi di terreno, la conoscenza e la cultura, per esempio – erano sempre state libere da ogni forma di possesso, ma quando l’India cominciò a firmare accordi commerciali internazionali si affermò una tendenza alla privatizzazione di queste merci precedentemente “comuni”. Tra i miei amici di Delhi c’era la sensazione che la cultura aziendale, che si autoreclamizzava come un rimedio per molti, avrebbe portato a una nuova forma di povertà se non si fosse adattata nelle sue basi a questa realtà.
E si avvertiva che tramite questo adattamento sarebbe stato possibile immaginare nuove forme di capitalismo ibrido, che sarebbero state d’ispirazione non solo in India, ma ovunque. Fu in questo periodo, in fondo, che New York fu colpita dalla devastazione dell’11 settembre e, mentre le società occidentali cominciavano ad avvertire la pressione dei timori sull’Islam, il loro multiculturalismo e il loro stesso senso di superiorità sembrarono vacillare. Questo multiculturalismo poteva abbracciare persone di paesi e credo diversi, ma pretendeva anche che adottassero un livello profondo di omogeneità: tutti dovevano attenersi a un unico sistema giuridico, per esempio, e mettere da parte ogni pratica in contrasto con l’etica di efficienza e sobrietà dello stato. Delhi, dove quindici milioni di abitanti erano abituati a vivere gli uni accanto agli altri nonostante le differenze insuperabili, offriva uno spettacolo di vita infinitamente più vario e paradossale di questo – eppure fluido e funzionale. Questa capacità di una città del Terzo mondo di ammettere una totale incomprensibilità all’interno della sua stessa popolazione, di non dire, “permettimi di capirti, così che potremo convivere”, ma “vivrò accanto a te a ogni condizione, perché non ti capirò mai”, sembrava non solo più umana, ma anche più promettente come etica generale della globalizzazione, dato che era chiaro, in quest’epoca di interconnessioni globali, che eravamo tutti coinvolti in rapporti con persone che non avremmo mai conosciuto né capito. Forse la città del Terzo mondo, da tempo considerata un luogo di miseria e disperazione, poteva contenere forme implicite di conoscenza di cui poteva beneficiare anche il resto del pianeta.
E non erano solo chiacchiere, perché a Delhi stava sbocciando anche una nuova cultura. Mentre mi accingevo a scrivere il mio primo libro e mi rendevo conto che Delhi era un luogo molto più stimolante di New York, mi ritrovai circondato da ogni parte da gente che faceva cose simili. Una scrittrice di Delhi, Arundhati Roy, il primo membro di questo ambiente a ottenere visibilità internazionale, aveva da poco vinto il Booker Prize, e all’improvviso sembrava che ovunque, in questa città non letteraria, i giovani stessero scrivendo libri e girando film. Altri ventenni e trentenni fondavano case editrici, riviste e giornali. Caffè e bar decisero che avrebbero attratto più clienti con letture di poesia e proiezioni di film.
Ancora più dinamico era il nascente mondo dell’arte, che comprendeva un gruppo eterogeneo di persone attratte dalla qualità delle università di Delhi, dai prezzi bassi dei suoi atelier o, semplicemente, dalla promessa ventilata, e così tangibile in quei giorni, che la città potesse far emergere il loro vero io. A quei tempi ricordo un’esposizione sperimentale dentro una casa abbandonata: c’erano pozze d’acqua sul pavimento e l’illuminazione di fortuna ti costringeva ad avanzare a tentoni per i corridoi. Alcune persone parlavano nella vasca da bagno. Le opere d’arte erano appese alle pareti dei bagni o nascoste dentro i cassetti della cucina. L’allestimento rispecchiava la disgregazione della città in quel periodo e la nuova realtà, insolita e meravigliosa, che stava per sorgere. Fu un’esperienza senza dubbio affascinante, e non sembrò così strano vedere tra i presenti Bianca Jagger che si aggirava per le stanze umide nel suo vestito immacolato. La gente continua a parlare ancora oggi di quella serata, quando potemmo avere un assaggio di quel che sarebbe avvenuto – perché, nel giro di pochi anni, molti di quegli artisti sarebbero diventati i beniamini del mondo dell’arte a livello internazionale. Collezionisti provenienti da ogni dove volevano possedere un frammento dell’ascesa indiana, qualcosa che avrebbe reso concrete le voci sull’emergere dell’Oriente, le crescenti astrazioni della borsa valori di Bombay, e fecero incetta di sculture d’acciaio e di marmo le cui enormi dimensioni sembravano rispecchiare le circostanze epiche da cui erano scaturite. Gli artisti si trasferivano in studi simili ad hangar, diventando in tutto e per tutto multinazionali, cominciando a produrre in Cina come ogni altra buona azienda del ventunesimo secolo e vendendo le loro opere a milioni di dollari al pezzo. La loro rapida ascesa da perdigiorno da due soldi a personaggi ricchi e potenti non poté passare inosservata nemmeno in una città poco incline all’arte come questa, e nel giro di poco gli artisti furono accolti nel pantheon delle celebrità indiane. Ma la gente dava per scontato che, essendo diventati così ricchi, questi artisti non avessero mai pensato ad altro. Io, però, li avevo conosciuti prima, quando non c’erano ancora soldi all’orizzonte, quando l’unica cosa che avevano in mente era come dar forma a quella voce possente di cui molti di noi sentivano il ruggito, nei primi tempi della metropolitana di Delhi.
Dieci anni dopo, questo clamore utopistico non esisteva più.
Quei primi anni straordinari sembravano un lontano ricordo. Il futuro era arrivato, e non era nulla di così sensazionale. La città era stata sopraffatta da energie più negative, e Delhi sembrava di nuovo un luogo marginale e irrilevante. Se avevamo pensato che questa città potesse insegnare qualcosa al resto del mondo sulla vita del ventunesimo secolo, eravamo rimasti delusi. La corsa all’appropriazione dei terreni e la solita corruzione, che diventarono così lampanti in quegli anni, l’aumento del potere delle élite a discapito di chiunque altro, la trasformazione di tutto ciò che era lento, intimo e peculiare in qualcosa di veloce, ampio e generico resero difficile sognare ancora un futuro sorprendente. I soldi governavano la città anche di più che nel “materialista” Occidente, e il nuovo stile di vita che vedevamo sorgere attorno a noi era una copia scialba e degradata di ciò che avevano sviluppato le società occidentali: palazzi di uffici, condomini, centri commerciali e, tutt’attorno, milioni di persone che non entravano mai in questi posti tranne che, forse, per pulire i pavimenti.
L’aumento della violenza urbana, inoltre, che si manifestò in maniera più sensazionale con una serie triste e ripetuta di orribili crimini a sfondo sessuale, portò a una diffusa costernazione sul genere di società che si stava formando in questa metropoli in rapido cambiamento. Mentre migliaia di persone scendevano in piazza per esprimere sia la loro vicinanza alle vittime, sia la loro indignazione per la vulnerabilità che ora chiunque provava per le strade della città, Delhi diventò un luogo di confusa introspezione. In quei giorni di crescita economica alcuni avevano sperato di poter dire addio a simili violenze, che risalivano all’epoca coloniale e colpivano indiani e stranieri in egual misura, e indicavano che quella indiana era una cultura inferiore e atavica. Ma le cronache brutali sulle pagine dei quotidiani di Delhi fecero sorgere grandi dubbi sulla legittimità di questa speranza. La città non stava più costruendo un paradiso che avrebbe ispirato il mondo: ora stava cercando di non sprofondare nell’inferno.

© 2014 Rana Dasgupta