Chi era davvero Ahmed Chalabi?
È morto uno degli iracheni che più collaborò con gli americani per destituire Saddam Hussein: a Washington ci si chiede ancora se era un ciarlatano o un eroe
di Greg Jaffe - Washington Post
Poche persone sono state più amate e più odiate a Washington di Ahmed Chalabi, un espatriato iracheno che ha affascinato i politici americani e ha sostenuto apertamente la guerra in Iraq del 2003. Chalabi è morto a Baghdad a 71 anni per un arresto cardiaco. Nella sua vita aveva ricoperto diversi incarichi politici: tra le altre cose, era stato presidente del Consiglio di governo dell’Iraq, ministro del petrolio e vice-primo ministro iracheno. La sua morte ha messo a nudo le profonde divisioni che rimangono ancora oggi sulle cause del fallimento dell’invasione statunitense in Iraq, sulle cose che ancora devono essere imparate da quell’esperienza e sulla rabbia che ne è scaturita.
Per i suoi pochi veri sostenitori, Chalabi rimane l’eroe di una battaglia che ha portato alla destituzione di un dittatore – l’ex presidente iracheno Saddam Hussein – e che ha cercato di instaurare una democrazia “occidentale” in Medio Oriente. Richard Perle, ex capo del Defense Policy Board dell’amministrazione di George W. Bush – un comitato federale che si occupa di consigliare il dipartimento della Difesa statunitense – e uno degli architetti della guerra in Iraq, ha detto: «Rimasi a casa sua [di Chalabi, ndr] per ore e ore. Parlammo di arte, di storia e di poesia. Condivideva i nostri valori? Certamente li condivideva».
Quelli che si opposero all’invasione americana in Iraq descrivono Chalabi come un ciarlatano che portò la nazione più potente del mondo a lanciarsi in una guerra disastrosa che costò migliaia di miliardi di dollari e circa 5mila vite americane. Il generale Anthony Zinni, che in passato ha ricoperto l’incarico di comandante delle forze armate americane in Medio Oriente, ha detto di Chalabi: «Era un artista imbroglione che aveva contatti con molti membri del Congresso, nell’amministrazione, con i neocon – i conservatori interventisti – e con alcuni membri dell’esercito. Abbiamo provato a mettere in guardia queste persone, ma i nostri avvertimenti sono caduti nel vuoto e ci hanno denigrati. Tutti ne abbiamo pagato il prezzo».
Che se lo sia meritato o no, il nome di Chalabi è diventato sinonimo della precipitosa guerra americana in Iraq e dei suoi fallimenti nella più ampia regione del Medio Oriente. La storia personale di Chalabi è impressionante. Chalabi lasciò l’Iraq alla fine degli anni Cinquanta, arrivando negli Stati Uniti dove ottenne una laurea in matematica al Massachusetts Institute of Technology (MIT) e un dottorato all’Università di Chicago. Prima che iniziasse la guerra in Iraq, abitava a Londra in un appartamento di 12 stanze arredato con eleganti mobili e opere d’arte molto costose.
Il suo innegabile genio era nel conoscere Washington e i suoi meccanismi. Brian Katulis, un analista esperto di Medio Oriente per il Center for American Progress, ha detto che Chalabi «era ascoltato dalle amministrazioni sia Repubblicane che Democratiche». Negli anni Novanta la CIA e il Congresso americano stanziarono milioni di dollari per il Congresso nazionale iracheno, il partito politico guidato da Chalabi che operò per molto tempo in opposizione a Saddam Hussein. In quegli anni Chalabi si muoveva tra Washington, Londra e le regioni del nord dell’Iraq controllate dai curdi. Il suo ruolo crebbe dopo che George W. Bush fu eletto presidente. Chalabi e il suo partito cominciarono a far uscire dall’Iraq gli oppositori di Hussein, gli stessi che raccontarono che il regime iracheno era in possesso di armi chimiche e nucleari (informazioni che si rivelarono quasi del tutto infondate). Convinse importanti funzionari dell’amministrazione Bush che la guerra in Iraq sarebbe stata veloce e facile. L’allora vice-presidente Richard Cheney disse alla vigilia dell’invasione: «Saremo accolti come dei liberatori». Cheney stava di fatto ripetendo le cose che diceva Chalabi.
Ahmed Chalabi e R. James Woolsey, ex direttore della CIA, al Congresso americano nel marzo 1998. (Ray Lustig — The Washington Post)
Mentre gli anni passavano e la guerra in Iraq – iniziata con la promessa che sarebbe finita con una rapida vittoria – si dimostrava essere sempre più un pantano, le contraddizioni e il mistero che circondavano Chalabi si fecero più profondi. Chalabi incontrò importanti funzionari del dipartimento della Difesa, incluso l’allora segretario della Difesa Donald Rumsfeld, e corteggiò il religioso sciita Moqtada al Sadr, le cui milizie erano responsabili della morte di centinaia di soldati americani. L’esercito americano fece irruzione a casa di Chalabi a Baghdad: si pensava che Chalabi passasse segreti all’Iran, ma non si arrivò mai ad accuse formali. Un funzionario dell’amministrazione Bush che lavorò insieme a Chalabi ha detto: «Lui sentiva, con qualche ragione, di essere “usato” dal governo americano. Non sto difendendo il suo comportamento, ma una delle lezioni più importanti che abbiamo imparato sull’Iraq è che gli americani continuano a dare le colpe agli iracheni».
La morte di Chalabi ha causato la ricerca di altre lezioni. Per alcuni lui è la prova della fede – mal riposta – che gli americani hanno nei leader stranieri che si mettono i vestiti occidentali, che parlano fluentemente l’inglese e che sanno inserirsi nella politica americana. Il colonnello Andrew Bacevich, docente di storia e relazioni internazionali all’Università di Boston, ha detto: «Come era già successo in passato, è venuto fuori che gli alleati che ci siamo scelti hanno degli obiettivi diversi rispetto ai nostri. Hanno i loro valori e perseguono i loro obiettivi. Li accusiamo di averci fatto fallire, ma il fallimento si origina nelle nostre stesse illusioni». Per altri, Chalabi è emblematico di cosa poco il governo americano sappia dei paesi che invade, e di come continui a rimanere nell’ignoranza. «Ancora non abbiamo una profonda conoscenza dei fattori politici e sociali che hanno prodotto la guerra là [in Iraq]», ha detto Katulis.
Altri ancora citano Chalabi per spiegare le cautele del presidente Barack Obama quando si discute di sostenere i ribelli in altri campi di battaglia. Il tenente colonnello John Nagl, un veterano dell’Iraq e uno dei principali autori della dottrina di “counterinsurgency” americana, ha detto: «Lui è una delle ragioni per cui non abbiamo sostenuto i ribelli nel 2012. È molto probabile che abbiamo imparato la lezione fin troppo bene. Chalabi non era l’alleato che speravamo che fosse, ma questo non significa che sia impossibile oggi trovare un buon alleato».
Ancora oggi Chalabi è una figura contraddittoria e in un certo senso sconosciuta. Le accuse secondo cui passava dei segreti all’Iran non furono mai provate. Per molto tempo lui sostenne che la sua condanna di appropriazione indebita di 300 milioni di dollari da una banca giordana fosse il prodotto di una vendetta politica. Pochi fatti riguardo alla vita di Chalabi sono inconfutabili: era ossessionato dal destituire Saddam Hussein e reclamava un ruolo preminente nella politica irachena anche dopo i suoi 45 anni di esilio. Era coraggioso, lasciò una vita confortevole a Londra per il caotico e pericoloso mondo della politica irachena. Mentiva ma giustificava le sue bugie dicendo che erano strumentali a un bene più grande. Nel 2004, dopo che fu rivelato che Hussein si era sbarazzato delle sue armi chimiche e biologiche, Chalabi disse al Daily Telegraph: «Noi siamo eroi che hanno sbagliato».
Chalabi era raffinato, divisivo, paranoico e complesso. Eliot Cohen, ex funzionario dell’amministrazione Bush che ricoprì un incarico nel dipartimento di Stato americano dopo l’invasione in Iraq, ha detto: «Chalabi era certamente molto intelligente e l’odio verso di lui lo ha reso un personaggio ancora più credibile». Quindi, quale lezione hanno imparato gli americani dai tre decenni di relazioni con Ahmed Chalabi? Forse, ha detto Cohen, che non ci sono chiare lezioni: «Quando chiedi a un essere umano di farsi carico del peso di un’intera guerra, ti stai mettendo nei guai. Quelle sono persone complicate che operano in un ambiente complicato. Il meglio che puoi dire è che è una figura estremamente ambigua».
©Washington Post 2015