Come funzionano le lobby della moda
Non sono radicate come quelle farmaceutiche ma ogni anno investono comunque parecchi milioni di euro per promuovere i proprio interessi
Business of Fashion (BOF), uno dei più autorevoli siti online dedicati alla moda, racconta i frequenti meccanismi di lobbying del mondo della moda statunitense, cioè i tentativi di influenzare il potere politico e amministrativo per difendere e promuovere i propri interessi. Com’è facile immaginare, stabilire con esattezza le pressioni delle lobby della moda è piuttosto complicato, vista la discrezione con cui le aziende affrontano l’argomento; BOF ha raccolto alcuni esempi per darne un’idea.
In questi ultimi mesi le lobby si sono concentrate attorno al Trans Pacific Partnership (TPP), un grande trattato internazionale sul commercio che coinvolge 12 paesi affacciati sull’Oceano Pacifico: Australia, Brunei, Canada, Cile, Giappone, Malesia, Messico, Nuova Zelanda, Perù, Singapore, Vietnam e soprattutto Stati Uniti. Il TPP prevede la cancellazione o la riduzione di alcune tasse che alcuni paesi applicano alle merci provenienti da altri: al momento l’accordo è stato solo annunciato, non è stato ancora firmato e non se ne conoscono i dettagli in termini di numeri e prodotti.
Le implicazioni del TPP interessano molto il mondo della moda per i vantaggi economici che ne potrebbero derivare. In particolare gli Stati Uniti, il più grande acquirente nel campo dell’abbigliamento, avrebbero un accesso facilitato al Vietnam, il terzo mercato emergente nella produzione di vestiti, dopo la Cina e il Bangladesh. Secondo un’analisi della Footwear Distributors and Retailers of America, la più grande associazione statunitense nel settore delle calzature, nel 2014 le aziende statunitensi hanno pagato 400 milioni di dollari in tariffe doganali per scarpe importate da paesi che partecipano al TPP: l’accordo permetterà di risparmiare parte di questo denaro.
BOF racconta anche i notevoli sforzi della multinazionale di abbigliamento sportivo Nike per far passare il trattato: dal 2006 ha intensificato la sua attività di lobbying sul tema più di qualsiasi altra azienda. L’anno scorso Nike ha speso 1,1 milioni di dollari (quasi un milione di euro) per fare pressioni a favore dell’accordo, a cui si aggiungono altri 560 mila dollari (oltre 500 mila euro) nella prima metà di quest’anno. L’interesse di Nike nel TPP è stato confermato anche dalla visita, a maggio, del presidente degli Stati Uniti Obama al quartier generale dell’azienda a Beaverton, in Oregon, dove ha parlato a favore dell’accordo. In occasione della visita Mark Parker, amministratore delegato di Nike, ha detto che il TPP permetterà all’azienda di creare 10 mila nuovi posti di lavoro nell’industria manifatturiera e nell’ingegneria: «la libera circolazione dei beni nell’economia globale – ha spiegato – sguinzaglierà la nostra capacità di investire e innovare».
Negli Stati Uniti – ma non solo, succede per esempio anche nella Commissione e nel Parlamento Europeo – quella del lobbista è una vera e propria professione, disciplinata da una legge federale, il Federal Lobbying Disclosure Act. La legge regolamenta l’attività di lobbying e prevede un’iscrizione in un apposito registro, così da garantirne la trasparente. Secondo dati della US Federal Lobbyng Disclosures, l’ufficio federale che si occupa della materia, nella prima metà del 2015 le aziende di moda hanno già speso molti soldi per difendere e promuovere i propri interessi, e in particolare il TPP: la National Retail Federation, l’associazione che difende i diritti dei grandi distributori statunitensi, ha speso 3 milioni di dollari (2,7 milioni di euro); i grandi magazzini Target 770 mila (quasi 700 mila euro); e le catene di abbigliamento JC Penney e Gap rispettivamente 410 mila dollari (370 mila euro) e 160 mila dollari (145 mila euro). Sono pochi rispetto a quelli investiti dalle lobby farmaceutiche – che nel 2015 hanno speso complessivamente 1,63 miliardi di dollari (1,47 miliardi di euro) – ma dimostrano comunque il coinvolgimento delle case di moda.
Una lobby può limitarsi a cercare contatti e inviare comunicazioni ai politici – come presentare dati e rapporti a sostegno delle sue richieste – oppure organizzare grosse campagne per influenzare l’opinione pubblica, finanziare campagne elettorali, e addirittura promuovere scioperi e proteste. Le aziende possono assumere lobbisti o pagare un’organizzazione che lo faccia al posto loro: non c’è un tetto massimo alle spese che si possono spendere per le attività di lobby, ma c’è per le donazioni individuali ai politici, pari a 2.700 dollari (2.500 euro) per ciclo elettorale. Julia Hughes, presidente della United States Fashion Industry Association (USFIA), un gruppo di Washington DC che preme per eliminare le restrizioni sul commercio di tessuti e abbigliamento, ha spiegato che il lavoro del gruppo consiste nell’incontrare e sottoporre regolarmente le richieste degli iscritti ai responsabili delle politiche amministrative.
BOF riporta alcuni esempi in cui il lobbying ha funzionato. Il caso più famoso è del 2009 e riguarda la casa di alta moda francese Chanel, il suo direttore creativo Karl Lagerfeld, il gruppo LVMH e altre aziende che si occupano di beni di lusso. Nel 2010 sarebbe scaduta le legge europea per la concorrenza che consentiva ai marchi di scegliere su quali siti vendere la propria merce; sarebbe stata sostituita da un’altra che eliminava le restrizioni sul commercio online. LVMH, Chanel e altre società del lusso temevano che i loro prodotti sarebbero stati così venduti su mercati di massa, come per esempio Ebay, insieme a riproduzioni false dei loro articoli; iniziarono quindi un’operazione di lobbying per impedire all’UE di approvare le nuove norme. Karl Lagerfeld andò a Bruxelles per incontrare Neelie Kroes, responsabile delle politiche di concorrenza della Commissione europea, e per discutere con lei il disegno di legge. Avvocati e lobbisti cercarono di far capire ai politici che la distribuzione selettiva è fondamentale per l’industria del lusso, un settore che produce il 3,5 per cento del prodotto interno lordo dell’UE e dà lavoro a 1,5 milioni di persone. Questa strategia ebbe successo, e la legge che venne poi adottata consente alle aziende di lusso maggior controllo sulla vendita online dei loro prodotti.
Negli ultimi anni le società di moda hanno indirizzato le attività di lobby su temi come l’e-commerce, la sicurezza dei prodotti e la proprietà intellettuale. In quest’ultimo caso la lobby della moda ha però fallito. Nel 2012 il CFDA, Council of Fashion Designers of America, l’equivalente americano della nostra Camera della moda, ha chiesto una legge per garantire tre anni di diritti d’autore agli stilisti che registravano un nuovo prodotto nel giro di sei mesi dalla creazione. Il CFDA assunse due lobbisti ma non riuscì a far passare la legge, in parte perché i politici sono restii a farsi carico di cause che appaiono elitarie e lontane dai problemi della gente, in parte perché la legge sembrava semplicemente proteggere gli interessi delle case di moda e non l’interesse generale.
Negli Stati Uniti le attività di lobby della moda più recenti sono quelle dei negozi di lusso in California, che chiedono un’esenzione dal divieto di importare pelle di coccodrillo. Il governo statunitense deve invece affrontare le pressioni del sito di e-commerce cinese Alibaba per non venire inserito nella lista nera dei siti che vendono merce contraffatta. In Europa il mondo della moda si sta invece muovendo attorno al Transatlantic Trade and Investment Partnership (TTIP, in italiano Trattato transatlantico per il commercio e gli investimenti), un accordo commerciale di libero scambio su cui stanno negoziando l’Unione europea e gli Stati Uniti: ci sono già stati incontri tra il dipartimento della Commissione europea che si occupa di moda e aziende come Ralph Lauren, LVMH, Levi’s, Inditex e Ebay.