L’isola dell’infanzia
Il terzo libro della monumentale autobiografia di Karl Ove Knausgård, che qui racconta la sua infanzia in Norvegia negli anni Settanta
Feltrinelli ha pubblicato il libro L’isola dell’infanzia, di Karl Ove Knausgård, scrittore norvegese che attualmente vive in Svezia. Il libro, tradotto in italiano da Margherita Podestà Heir, è il terzo capitolo della sua imponente opera autobiografica La mia battaglia, che si compone di sei volumi (i precedenti due, La morte del padre e Un uomo innamorato, sono stati anch’essi pubblicati in Italia da Feltrinelli).
In questo romanzo Knausgård racconta la storia della sua famiglia, che nei primi anni Settanta si trasferisce da Oslo su un’isola nel sud della Norvegia, e delle sue esperienze e scoperte sull’isola dove lui, appena nato quando la famiglia vi arriva, trascorre i suoi primi anni di vita.
Questo è l’inizio del romanzo.
***
Un giorno mite e nuvoloso dell’agosto 1969, per una strada stretta che si snodava all’estremità di un’isola della Norvegia meridionale tra rocce e giardini, prati e boschetti, su e giù lungo leggeri pendii e tornanti, a volte con gli alberi che si ergevano su entrambi i lati a mo’ di galleria, a volte quasi a picco sul mare, stava sopraggiungendo una corriera. Apparteneva all’Arendal Dampskibsselskab e come tutti i pullman di quella compagnia era verniciata di marrone scuro nella parte inferiore e di color nocciola chiaro in quella superiore. Dopo aver attraversato un ponte e mentre costeggiava un’insenatura, messa la freccia a destra, il mezzo si fermò. La porta si aprì, ne discese una famigliola. Il padre, un uomo alto e snello con indosso una camicia bianca e un paio di pantaloni chiari in terylene, aveva due valigie. La madre, con il soprabito beige e un foulard azzurro avvolto intorno ai capelli lunghi, spingeva con una mano una carrozzina mentre con l’altra stringeva quella di un bambino. Il gas di scarico grigio e untuoso emesso dal tubo di scappamento della vettura aleggiò per un attimo sull’asfalto dopo che il mezzo si era allontanato.
“C’è da camminare per un po’,” disse il padre.
“Ce la fai, Yngve?” domandò la madre abbassando lo sguardo verso il piccolo, che annuì.
“Certo,” rispose questi.
Aveva quattro anni e mezzo, i capelli chiari, quasi bianchi e la pelle abbronzata dopo una lunga estate trascorsa al sole. Suo fratello, che aveva a malapena otto mesi, era sdraiato nella carrozzina e con gli occhi puntati verso l’alto fissava il cielo, ignaro di dove fossero e di dove si stessero recando.
Iniziarono lentamente a risalire il pendio. La strada coperta di ghiaia era piena di buche più o meno grandi scavate dalla pioggia. Su entrambi i lati si estendevano i campi. Al limitare di quella zona pianeggiante, lunga forse cinquecento metri, cominciava un bosco che digradava verso le spiagge di ciottoli ed era formato solo da piante basse, come se fosse stato compresso dal vento che soffiava dal mare.
Una casa di recente costruzione si stagliava sul lato destro. Per il resto non si vedevano altre abitazioni.
Si sentiva il cigolio delle grandi molle della carrozzina. Il bebè chiuse a poco a poco gli occhi, cullato nel sonno da quel meraviglioso dondolio. Il padre, che aveva i capelli corti e scuri e una barba nera e compatta, appoggiò a terra una valigia prima di asciugarsi con la mano il sudore dalla fronte.
“Accidenti che afa,” commentò.
“Sì,” rispose lei. “Forse è più fresco vicino al mare.”
“Speriamo,” le rispose prima di afferrare nuovamente il bagaglio.
Quella famiglia ordinaria sotto tutti i punti di vista, dove i genitori erano giovani come lo erano tutti i genitori di quel periodo, e il numero di figli era pari a due, così come era consuetudine all’epoca averne due, si era trasferita da Oslo, dove per cinque anni aveva abitato in Thereses gate nei pressi dello Bislett Stadion, all’isola di Tromøya, dove in una zona residenziale in continua espansione era in costruzione la loro nuova casa. Mentre aspettavano che la villetta fosse pronta, ne avrebbero presa in affitto un’altra, una vecchia abitazione che si trovava all’interno dell’ex campo militare di Hove. A Oslo di giorno lui aveva studiato, inglese e norvegese, mentre la notte lavorava come guardiano, lei aveva frequentato il corso di infermiera professionale presso la Ullevål sykepleierskole. Anche se non aveva concluso gli studi universitari, lui aveva cercato e ottenuto il posto di insegnante alla scuola media di Roligheden, mentre lei avrebbe lavorato al “Sanatorio Kokkeplassen per malati di nervi”. Si erano conosciuti a Kristiansand all’età di diciassette anni e, quando ne avevano diciannove, lei era rimasta incinta e si erano sposati a venti nella piccola fattoria in cui era cresciuta nella Norvegia occidentale. Nessuno della famiglia dello sposo era presente al matrimonio e anche se lui appare sorridente in tutte le foto che erano state scattate, è come circondato da un’aura di solitudine, si vede che non fa del tutto parte della cerchia di fratelli e sorelle, zie e zii, cugini e cugine di lei.
Adesso hanno ventiquattro anni e davanti a loro si apre quella che sarà la loro vera vita. Un lavoro proprio, una casa propria, figli propri. Sono loro due e anche il futuro a cui stanno andando incontro è loro.
Lo è?
Erano nati nello stesso anno, il 1944, e appartenevano alla prima generazione del dopoguerra che sotto molti punti di vista si trovava ad affrontare qualcosa di nuovo, soprattutto perché per la prima volta nella storia della Norvegia il corso della loro esistenza si sarebbe svolto in seno a una società pianificata su larga scala. Gli anni cinquanta rappresentarono l’epoca in cui si assistette all’enorme sviluppo degli enti pubblici – il sistema scolastico, quello sanitario, quello previdenziale e quello dei trasporti, dell’amministrazione e delle opere pubbliche, attuato grazie a una centralizzazione in grande stile che in un arco di tempo sorprendentemente breve ebbe grandi conseguenze sui modi di vivere le singole esistenze. Il padre di lei, nato all’inizio del Novecento, veniva dalla fattoria in cui lei stessa era cresciuta, a Sørbøvåg nell’Ytre Sogn, e non aveva nessuna istruzione. Il nonno paterno di lei veniva da una delle isole che costellavano il fiordo, e lo stesso valeva probabilmente per suo padre e il padre di suo padre. La mamma della sposa proveniva da una fattoria nel comune di Jølster, a circa un centinaio di chilometri di distanza, e neppure lei era mai andata a scuola ed esistevano testimonianze che indicavano che la sua stirpe era vissuta in quei luoghi a partire dal 1500. Per quanto riguarda gli antenati di lui, si trovavano su un gradino più alto della scala sociale, nel senso che sia il padre sia i fratelli di quest’ultimo possedevano un’istruzione superiore. Eppure anche loro abitavano nello stesso posto dei propri genitori, cioè nella cittadina di Kristiansand. La madre di lui, che non aveva mai studiato, era di Åsgårdstrand, il padre di lei faceva il pilota marittimo e tra gli antenati di lei c’erano anche dei poliziotti. Quando conobbe il futuro marito, si trasferì con lui nella città d’origine di quest’ultimo. Quella era la regola. Il mutamento che avvenne negli anni cinquanta e sessanta rappresentò una vera e propria rivoluzione, seppur priva della violenza e dell’irrazionalità che normalmente le contraddistinguono. Non solo i figli dei pescatori e dei contadini, degli operai e dei commessi cominciarono a frequentare l’università e a studiare per diventare insegnanti e psicologi, storici e assistenti sociali, ma molti di loro andarono a vivere in luoghi anche assai distanti dalle zone di provenienza delle loro famiglie. Che facessero tutto questo con la più grande naturalezza la dice lunga sulla potenza dello spirito di quell’epoca. Lo spirito del tempo proviene dall’esterno, ma funge all’interno. Per esso tutti sono uguali, ma esso non è uguale per nessuno. Per la giovane madre appartenente agli anni sessanta sarebbe stato un pensiero assurdo sposarsi con uno che proveniva da una delle fattorie limitrofe e trascorrere lì il resto della propria esistenza. Lei voleva andarsene! Voleva una vita tutta sua! Lo stesso valeva per suo fratello e le sue sorelle, e questo riguardava anche le famiglie sparse in tutta la Norvegia. Ma perché volevano questo? Da dove aveva origine una convinzione così forte? Sì, da dove scaturiva il nuovo? Nella famiglia di lei non esisteva nessuna tradizione in quel senso: l’unico che se n’era andato era stato il fratello di suo padre, Magnus, che si era recato in America spinto dalla povertà e dalla miseria, ma l’esistenza che aveva condotto laggiù non fu molto diversa da quella che aveva trascorso nella Norvegia occidentale. Per il giovane padre degli anni sessanta le prospettive erano diverse, la sua famiglia si aspettava che studiasse, ma forse non che si sposasse con la figlia di un contadino che veniva da una piccola fattoria della Norvegia occidentale e si trasferisse in un nuovo quartiere residenziale ancora in costruzione alla periferia di una minuscola cittadina della Norvegia meridionale.
E invece eccoli lì a camminare in quella giornata calda e nuvolosa dell’agosto del 1969, diretti verso la loro nuova casa, lui mentre trascina due pesanti valigie stracolme di abiti degli anni sessanta, lei mentre spinge una carrozzina modello anni sessanta dentro cui c’è un neonato vestito con indumenti anni sessanta, cioè bianchi e pieni di pizzi, e tra di loro, mentre avanzava ciondolando, felice e curioso, eccitato e pieno di aspettative, il loro primogenito Yngve. Attraversata la zona pianeggiante e la minuscola fascia boschiva, giunsero al portone d’ingresso, che era aperto, prima di procedere all’interno di quella grande area che costituiva il campo. A destra c’era una autofficina di proprietà di un certo Vraaldsen, a sinistra alcune grandi baracche rosse delimitavano uno spiazzo coperto di ghiaia dietro cui cominciava una pineta.
A un chilometro di distanza in direzione est si trovava la chiesa di Tromøy, era in pietra e risaliva al 1150, anche se alcuni suoi elementi erano ancora più antichi: probabilmente era una delle chiese più vecchie di tutta la Norvegia. Si ergeva su una piccola altura e fin dalla notte dei tempi doveva essere stata usata come punto di riferimento dalle navi di passaggio dal momento che era segnalata su tutte le carte nautiche. Su Mærdø, una delle isolette che componevano quell’arcipelago, spiccava la vecchia abitazione di un comandante di navi a testimonianza del periodo di massimo splendore che aveva conosciuto quella zona nel Settecento e nell’Ottocento, quando il commercio con il mondo esterno, soprattutto di legname, era fiorente. Durante la visita all’Aust-Agder museet alle scolaresche venivano mostrati oggetti antichi olandesi e cinesi che risalivano a quel periodo o a epoche ancora precedenti. Sull’isola di Tromøya si trovavano piante rare ed esotiche, erano giunte con le navi che svuotavano le loro acque di zavorra, e a scuola si imparava che fu proprio a Tromøya che per la prima volta fu coltivata la patata in Norvegia. Nelle saghe sui re nordici di Snorre l’isola veniva citata più volte, scavando nel terreno dei prati e dei campi era possibile estrarre punte di frecce risalenti all’età della pietra, mentre tra i ciottoli delle sue lunghe spiagge si trovavano resti fossili.
Ma nel momento in cui quel nucleo familiare si stava trasferendo e percorreva lo spazio aperto portandosi appresso tutto il suo armamentario, non era stato il Novecento o il milleduecento, il milleseicento o il milleottocento ad aver lasciato le proprie impronte sull’ambiente che li circondava, ma lo aveva fatto la Seconda guerra mondiale. Quell’area era stata utilizzata dai tedeschi durante la guerra: erano stati loro a costruire le baracche e molte delle abitazioni presenti. Nel bosco si trovavano ancora bunker bassi in muratura perfettamente intatti, e in cima alle scogliere postazioni fortificate munite di cannoni. In quella zona si trovava addirittura un piccolo aeroporto tedesco.
La casa in cui avrebbero abitato nell’anno a venire si trovava isolata nel bosco. Era dipinta di rosso con gli infissi delle finestre bianchi. Dal mare, che non era visibile, ma che si trovava a poche centinaia di metri di distanza, giungeva un brusio costante. Si sentiva l’odore di bosco e di acqua salata.
Dopo aver appoggiato le valigie, il padre estrasse la chiave e aprì la porta. All’interno c’erano un corridoio, una cucina, un soggiorno con un camino a legna, un bagno che fungeva anche da lavanderia, e al primo piano tre camere da letto. Le pareti non erano isolate, la cucina era attrezzata in modo spartano. Nessun telefono, nessuna lavastoviglie, nessuna lavatrice, nessun televisore.
“Eccoci qui,” esclamò il padre prima di portare le valigie in camera da letto mentre Yngve correva da una finestra all’altra sbirciando fuori e la madre parcheggiava la carrozzina con dentro il bambino che dormiva sulla veranda in legno, davanti alla porta.
© Forlaget Oktober as, Oslo, 2009