I morti che sono rimasti sull’Everest
Sulla montagna più alta del mondo ci sono 200 cadaveri, alcuni di decenni fa e ancora visibili: recuperarli costa molto ed è difficile, a volte impossibile
L’Everest, in Nepal, è la montagna più alta del mondo: i primi a raggiungere la sua vetta – che si trova a 8.848 metri dal livello del mare – sono stati lo sherpa nepalese-indiano Tenzing Norgay e l’alpinista neozelandese Edmund Hillary, nel 1953. Da allora sulla vetta dell’Everest sono arrivate più di 4mila persone, e alcune di loro ci sono tornate più di una volta (alcuni addirittura decine di volte). In tutto si calcola che in più di 7mila occasioni degli esseri umani sono arrivati agli 8.848 metri della vetta dell’Everest. Ci sono però anche molte persone che hanno dovuto rinunciare durante la salita, e alcuni che sono morti provandoci. La giornalista Rachel Nuwer ha spiegato in un recente articolo scritto per BBC che sull’Everest ci sono al momento più di 200 corpi di persone morte cercando di raggiungere la vetta.
Death in the clouds: The problem with Everest’s 200+ bodies on @BBC_Future http://t.co/aoLvhqKL5N pic.twitter.com/j6Mvp9xwPP
— 🇺🇦Evan Kirstel #B2B #TechFluencer (@EvanKirstel) October 16, 2015
I più di 200 corpi che ancora sono sull’Everest sono lì perché è quasi impossibile recuperarli e, in alcuni casi, nemmeno si sa con certezza dove siano. I corpi che sono sull’Everest da più tempo sono lì dagli anni Venti del Novecento, quando ci furono le prime spedizioni per cercare di raggiungere la vetta: uno dei cadaveri più famosi dell’Everest è quello di Tsewang Paljor, un alpinista indiano morto a 28 anni nella tempesta del 1996, quella raccontata dal film Everest uscito in Italia il 24 settembre. Paljor è morto indossando degli scarponi verdi – in certi momenti ancora visibili – ed è conosciuto come “Green Boots”: Nuwer scrive che «nei momenti in cui c’è poca neve, gli alpinisti hanno dovuto passare sopra le gambe di Paljor nel loro percorso verso la vetta». I corpi di altri sherpa e alpinisti sono un po’ ovunque, spiega Nuwer: «Precipitati nei crepacci, sepolti sotto valanghe, visibili lungo i pendii, con i loro arti scoloriti e contorti».
La maggior parte dei corpi sull’Everest sono però lì dagli anni Ottanta, da quando l’Everest è iniziato a diventare una meta turistica, un obiettivo raggiungibile anche da non professionisti. George Mallory – un alpinista inglese morto sull’Everest nel 1924 – e che secondo alcuni raggiunse la vetta vent’anni prima di Norgay e Hillary – disse che la vetta dell’Everest è un simbolo «del desiderio dell’umanità di conquistare l’Universo» e a un giornalista che gli chiese perché volesse raggiungerne la cima, Mallory diede una risposta diventata molto famosa: «Perché è lì».
Nuwer scrive che della volontà di esplorare e superare i limiti descritta da Mallory resta oggi ben poco. Gli sherpa accompagnano turisti e alpinisti perché sono pagati molto bene e i turisti cercano di raggiungere la cima soprattutto per poterlo raccontare. Scalare l’Everest resta però comunque un’impresa molto pericolosa.
Perché andare sull’Everest?
Nuwer intervista ricercatori e alpinisti per spiegare che non si tratta solo di bisogno di adrenalina: «Scalare l’Everest è noioso, faticoso, ed è qualcosa di ben lontano da una scarica di adrenalina», spiega Matthew Barlow, ricercatore di psicologia dello sport alla Bangor University, in Galles. Più che di adrenalina si tratta di paura, dice Barlow: in montagna e soprattutto sull’Everest «l’emozione dominante è la paura, e l’origine di quella paura è chiara: se cado, muoio». In un certo senso, gli oltre 200 cadaveri ancora sull’Everest sono parte del motivo per cui si cerca di raggiungerne la vetta.
Fatta eccezione per le zone di guerra, le montagne più alte sono gli unici posti sulla Terra dove ci si aspetta – ed è quasi normale – di vedere dei cadaveri. Le persone muoiono su tutte le montagne, sull’Everest ce ne sono di più ed è quindi più probabile incontrarne. «Sei lì che cammini, è una splendida giornata e all’improvviso vedi qualcuno [morto]», ha spiegato l’alpinista Ed Viestrus: è un’improvvisa presa di coscienza».
Perché quei corpi sono ancora lì?
Perché in molti casi è quasi impossibile recuperarli e perché anche nel caso si riesca a riportarli al campo base – e poi da lì restituirli ai familiari – è costoso e pericoloso per chi li deve recuperare e trasportare. Ci sono anche dei casi in cui i corpi sono lì perché i familiari dei morti hanno deciso – conoscendo le volontà di chi è poi morto – di lasciarli dove sono: Nuwer spiega che, così come i marinai, anche molti alpinisti chiedono spesso di essere lasciati, se dovessero morire, nel luogo in cui sono morti.
Lo sherpa Ang Tshering, fondatore della società Asian Trekking e presidente dell’associazione nepalese di alpinisti ha spiegato che per recuperare un corpo serve una spedizione di sei-otto sherpa e i costi possono essere di diverse migliaia di euro: «A quell’altitudine sarebbe un grande sforzo recuperare anche solo una caramella, perché sarebbe completamente congelata e si dovrebbe scavarle attorno. Un cadavere che normalmente pesa 80 chilogrammi arriva a pesare, quando gela, 150 chilogrammi.
Un po’ per le tante difficoltà e un po’ per evitare di mettere a rischio le vite di chi dovrebbe recuperarli, i corpi restano sull’Everest. «Quando ci sono circa 500 persone all’anno che passano sopra un corpo, la cosa non è più accettabile» ha detto il giornalista statunitense Mark Jenkins, che è stato sulla cima dell’Everest: «È disonorevole». In molti casi è proprio a causa dell’eccessiva visibilità del corpo di un loro parente che i familiari insistono perché il corpo venga recuperato, o comunque reso non più visibile. Succede quindi che in alcuni casi i cadaveri vengano semplicemente fatti cadere in dei crepacci e, quando possibile, sono coperti con delle rocce che formano degli improvvisati tumuli. Anche solo far rotolare un corpo giù da un crepaccio è però difficile: «Il momento per rimuovere un cadavere è subito dopo l’incidente. Non voglio essere grottesco, ma dopo quel momento i corpi restano “uniti” alla montagna».
Cosa si può fare, quindi?
Non molto. Nonostante gli evidenti rischi e i conseguenti problemi è irrealistico pensare che l’Everest possa essere “chiuso”, che il grande giro d’affari dell’alpinismo turistico possa essere frenato e che il numero di cadaveri possa scendere, anziché aumentare. Dopo il famoso incidente del 1996 e dopo la valanga del 2014 che uccise 13 sherpa, i turisti e gli alpinisti hanno continuato ad andare sull’Everest. Nuwer spiega che gli sherpa hanno provato a scioperare, richiedere migliori condizioni di lavoro e assicurazioni sulla vita. Non è però cambiato molto: la paga per gli sherpa che accompagnano turisti e alpinisti sull’Everest è relativamente alta e più forte di qualsiasi altro disincentivo.
Tra i molti cadaveri che restano sull’Everest e tra quelli che andranno ad aggiungersi è però nel frattempo “sparito” il più famoso, quello di Tsewang Paljor, “Green Boots”: non è chiaro chi o perché lo abbia rimosso, Nuwer scrive però che la rimozione potrebbero essere stata ordinata dalle autorità cinesi che sono responsabili del versante nord dell’Everest, e che l’ordine potrebbe essere arrivato a causa della troppa fama e “visibilità” che stava ricevendo il cadavere di Paljor.