Cosa non va nel Nobel per la letteratura
L'assurdo meccanismo con cui viene assegnato, spiegato dallo scrittore Tim Parks nel suo ultimo libro dedicato ai libri
Di che cosa parliamo quando parliamo di libri è una raccolta di brevi saggi dello scrittore e traduttore inglese Tim Parks, pubblicato in Italia il 20 ottobre dalla casa editrice UTET. Il titolo italiano – in inglese è Where I’m Reading From, “Da dove sto leggendo” – è una citazione della famosa raccolta di racconti di Raymond Carver: What We Talk About When We Talk About Love, Di cosa parliamo quando parliamo d’amore.
Di che cosa parliamo quando parliamo di libri è composto di 37 saggi brevi – scritti con il tipico tono di Parks, pacato e spietato insieme – suddivisi in quattro sezioni: Il Mondo intorno ai libri, I libri nel mondo, Il mondo degli scrittori, Gli scrittori nel mondo. Nelle sue 299 pagine, racchiuse in una bella copertina, Parks tenta di rispondere a domande frequenti che ruotano attorno al mondo dei libri e che ci siamo probabilmente fatti anche molti di noi: i libri vanno letti davvero fino in fondo? gli ebook sono proprio libri? il diritto d’autore è proprio un diritto? si scrive meglio gratis o per soldi? i traduttori vogliono davvero tradurre? perché alcuni scrittori vengono fatti santi?
Tim Parks è uno scrittore e traduttore inglese che vive in Italia dal 1981: ha passato molti anni a Verona – che nel 2008 gli ha consegnato la cittadinanza onoraria – e da qualche tempo a Milano. Parks – che è nato a Manchester nel 1954 – scrive in lingua inglese, collabora con Guardian, New Yorker e New York Review of Books – in Italia con Il Sole24ore – e ha tradotto in inglese scrittori come Giacomo Leopardi, Niccolò Machiavelli, Alberto Moravia, Italo Calvino e Roberto Calasso. Ha scritto molti romanzi e saggi su svariati argomenti – gli italiani in generale e i treni italiani in particolare, la curva dei tifosi del Verona di cui ha fatto parte, il rafting e la meditazione che pratica entrambi, l’adulterio e altri diversivi – ma il suo argomento più ricorrente sono i libri, la lettura, la scrittura e la traduzione. Parks, che insegna Letteratura e Traduzione alla IULM di Milano, presenterà Di che cosa parliamo quando parliamo di libri a Bookcity (la manifestazione dedicata ai libri e alla lettura che si terrà a Milano dal 22 al 25 ottobre) insieme ad Andrea Kerbaker; l’incontro si terrà il 24 ottobre alle 18:00 alla sala del Grechetto della Biblioteca Sormani.
Di seguito il saggio del libro dedicato al premio Nobel per la letteratura e a cosa non funziona nel meccanismo con cui viene assegnato, che fa capire perché ha assunto nel tempo «un’importanza fuori da ogni logica».
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Che cosa c’è che non va nel Nobel
Nel 2011, il poeta svedese Tomas Tranströmer ha vinto il premio Nobel per la letteratura. Non ho letto Tranströmer, salvo un paio di poesie disponibili su internet, eppure sono sicuro che sia stata una decisione salutare sotto ogni punto di vista. Innanzitutto per i giurati. Mi spiego meglio.
Sono diciotto i membri dell’Accademia svedese, l’organizzazione alla quale sul finire dell’Ottocento fu offerto l’incarico di assegnare il premio. Due membri, all’epoca, erano convinti che sarebbe stato un errore accettare quel compito. L’Accademia era stata fondata nel 1786 con la missione di promuovere la «purezza, la forza e la nobiltà della lingua svedese». Come conciliare questo obiettivo con quello di scegliere la più notevole opera «di orientamento idealista» del mondo?
Tutti i membri dell’Accademia sono svedesi e perlopiù lavorano come docenti a tempo pieno nelle università del paese. Attualmente la giuria conta soltanto cinque donne e il ruolo di presidente è sempre stato una prerogativa maschile. Un solo membro è nato dopo il 1960. Questo è anche dovuto al fatto che dall’Accademia non ci si può dimettere. È una condanna all’ergastolo. Quindi raramente circola nuova linfa. Negli ultimi anni, però, due membri si sono astenuti dalle consultazioni per il premio in risposta a precedenti divergenze: una scatenata dalla reazione, o dall’assenza di reazione, alla fatwa contro Salman Rushdie, e l’altra per l’assegnazione del premio a Elfriede Jelinek, nel 2008, giudicata da chi si dissociava «caotica e pornografica».
Come vengono scelti i più grandi romanzieri e/o poeti attivi sulla scena internazionale? L’Accademia si affida a uno stuolo di esperti letterati provenienti da una moltitudine di paesi e li paga per stendere qualche riflessione sui possibili vincitori. Questi esperti dovrebbero restare anonimi eppure, come al solito, si è scoperto che alcuni conoscevano gli autori che avevano candidato.
Proviamo a immaginare la quantità di letture richieste. Supponiamo che ogni anno vengano nominati cento scrittori, un’ipotesi plausibile, e che di ciascuno i membri della giuria cerchino di leggere almeno un libro. Trattandosi di un premio indirizzato all’intera opera di un autore, ipotizziamo che, una volta ridimensionato il numero dei candidati, i membri leggano due libri di ciascuno dei restanti, poi tre, quattro e così via. È probabile che ogni anno si ritrovino a leggere intorno ai duecento libri (in aggiunta al loro consueto carico di lavoro). Di questi, pochissimi saranno scritti in svedese e solo per alcuni sarà disponibile una traduzione in quella lingua; molti saranno in inglese, o disponibili in traduzione inglese. Ma, dato che notoriamente inglesi e americani non traducono molto, in qualche caso gli originali più esotici andranno letti in traduzione francese, tedesca, o magari spagnola.
Non dimentichiamo che stiamo parlando di poesie, oltre che di romanzi, provenienti da ogni parte del mondo e spesso intensamente legate a culture e tradizioni letterarie di cui i membri dell’Accademia svedese, com’è comprensibile, sanno poco. Quindi è una massa di libri ardui ed eterogenei quella che i professori, ogni anno, sono tenuti a classificare e confrontare. Di recente, criticato per aver assegnato sette premi a scrittori europei negli ultimi dieci anni, Peter Englund, l’attuale presidente della giuria, ha dichiarato che i membri hanno una buona padronanza dell’inglese ma temono di non essere abbastanza competenti in lingue come l’indonesiano. Nulla da ridire.
Adesso fermiamoci un attimo e immaginiamo i nostri professori svedesi, chiamati a difendere la purezza della lingua nazionale, che confrontano un poeta indonesiano, magari tradotto in inglese, con un romanziere del Camerun, disponibile solo in francese, un altro che scrive in afrikaans ma è pubblicato in tedesco e in olandese, e infine una celebrità del calibro di Philip Roth, ovviamente disponibile in inglese, ma che i giurati potrebbero benissimo essere tentati, se non altro per un senso di spossatezza, di leggere in svedese.
È un compito invidiabile il loro? Ha poi tanto senso? I due membri della giuria che un secolo fa avrebbero voluto poter allontanare da loro quel calice, temevano che l’Accademia sarebbe diventata «un tribunale cosmopolita della letteratura», il che d’istinto gli sembrava un problema. Non sbagliavano. Ora, immaginiamo di essere anche noi condannati a prendere per tutta la vita, ogni anno, senza tregua, una decisione onerosa e pressoché impossibile a cui il mondo, sempre di più e per ragioni inspiegabili, ascrive un’importanza fuori da ogni logica. Come affrontiamo l’impresa? Cercando qualche criterio semplice e ampiamente condivisibile che ci aiuti a liberarci di questa seccatura. E poiché, per citare ancora Borges, l’estetica è complessa e richiede una sensibilità speciale, mentre l’affiliazione politica è più semplice e rapida da afferrare, cominciamo con l’inquadrare le aree del mondo che hanno attirato l’attenzione dell’opinione pubblica, magari per un’agitazione politica o perché accusate di violazioni dei diritti umani; troviamo gli autori che si sono già guadagnati una bella dose di rispetto e magari anche qualche premio importante nella comunità letteraria di quei paesi, e che si sono schierati apertamente dalla parte giusta dello scontro politico in questione, e li selezioniamo.
Ecco allora il periodo dei Nobel ai dissidenti del blocco sovietico, agli scrittori sudamericani contro la dittatura, agli scrittori sudafricani contro l’apartheid, o ancora, scelta quanto mai sorprendente, al commediografo antiberlusconiano Dario Fo. Certo, era un sistema rispettabile, ma, ahimè, non tutte le aree di crisi (Tibet, Cecenia) vantano un grande scrittore dissidente, quindi potremmo aggiungere che, poiché è inteso che il premio vada al paese almeno quanto allo scrittore, è impossibile conferirlo ad autori provenienti dalla stessa area di crisi per due anni consecutivi. Com’è complicato! Talvolta, però, la giuria ha messo un piede in fallo. Avendo ricevuto molti premi letterari importanti in Germania e Austria, la scrittrice femminista di sinistra Elfriede Jelinek sembrava una scelta sicura. Ma la sua opera è feroce, spesso indigesta (non vincerebbe mai un premio letterario in Italia o in Inghilterra, per esempio) e il romanzo Voracità in particolare, pubblicato poco prima dell’assegnazione del premio nel 2004, era assolutamente illeggibile. Lo so perché ci ho provato e riprovato. I membri della giuria l’avevano letto sul serio? Viene da chiederselo. Non sorprende, allora, che dopo le controversie causate dalla vittoria della Jelinek per un paio d’anni la giuria abbia ripiegato su scelte ovvie: Harold Pinter, politicamente adatto e quasi dimenticato; poi Vargas Llosa, che chissà perché immaginavo avesse già vinto il premio tanti anni fa. Che sollievo dev’essere allora, di tanto in tanto, mandare tutto al diavolo e premiare uno svedese, in questo caso l’ottantenne considerato il più grande poeta vivente della sua nazione, un uomo la cui opera completa, come ha osservato Peter Englund, si potrebbe racchiudere in un sottile volumetto in brossura. Un vincitore che l’intera giuria può leggere nell’originale e purissimo svedese in poche ore. Forse avevano bisogno di un anno sabbatico. Per non parlare poi del piccolo dettaglio, non irrilevante in questo periodo di crisi, che il premio da un milione e mezzo di dollari resterà in Svezia. Ma c’è un aspetto ancor più salutare in questa decisione, che difficilmente avrebbe preso una giuria americana o nigeriana, per esempio, e forse meno che mai una norvegese: serve a ricordarci la sostanziale futilità del Nobel e la nostra ingenuità nel prenderlo sul serio. Diciotto (o sedici) cittadini svedesi avranno una certa credibilità quando si tratta di valutare opere letterarie svedesi – quindi possiamo essere sicuri che Tranströmer sia un eccellente poeta – ma può davvero esistere un gruppo in grado di comprendere l’infinita varietà di opere appartenenti a così tante tradizioni diverse? E, soprattutto, perché dovremmo chiedergli una cosa simile?
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