Perché l’odio prospera online?
Secondo molti studiosi c'entrano le caratteristiche e le idee di chi abitava Internet all'inizio: maschi bianchi nerd
di Amanda Hess – Slate
Nel 1996 John Perry Barlow ha pubblicato la Dichiarazione di Indipendenza del Cyberspazio. «Vengo dal Cyberspazio, la nuova casa della Mente», scriveva Barlow. «Il nostro mondo è ovunque e da nessuna parte, ma non è materiale. Stiamo creando un posto dove tutti possano vivere senza privilegi o pregiudizi secondo etnia, potere d’acquisto, forza militare o luogo di nascita». Su Internet, spiegava, «i concetti legali di proprietà, espressione, identità, movimento e contesto non ci riguardano». Barlow sognava un mondo dove tutti gli utenti fossero uguali, che fossero uomini o donne, ricchi o poveri, gentili o stronzi. «Nel nostro nuovo mondo, tutti i sentimenti e le espressioni dell’umanità, dal degrado alla perfezione, sono parte di un unico oggetto indivisibile, la conversazione globale. Non possiamo separare l’aria che ci fa tossire da quella che permette agli uccelli di volare».
Nella vita reale Barlow viene dal Wyoming ed è il cofondatore della Electronic Frontier Foundation – una fondazione no profit per la difesa dei diritti online – oltre a essere l’ex paroliere della rock band Grateful Dead e un libertario maschio e bianco. Se leggete il testo di Barlow da un certo punto di vista, troverete l’intenzione di dare alle comunità emarginate il potere di criticare chi ha il potere. Contemporaneamente, però, il testo di Barlow scoraggia per esempio le donne e i neri a discutere del loro corpo e della loro identità online, dato che prevede la possibilità che chiunque li possa insultare liberamente. Poco dopo la pubblicazione, ha scritto ai tempi Businessweek, il testo di Barlow «si è diffuso come una pianta infestante attraverso le reti del mondo virtuale». Nel giro di mesi il testo era già stato ripubblicato circa cinquemila volte, un numero enorme per l’Internet di allora. Quasi due decenni dopo Kate Milner, che studia la diseguaglianza nelle comunità online per la University of Southern California, spiega che le parole di Barlow ricordano da vicino i meccanismi violenti – principalmente contro le donne – emersi di recente nel GamerGate, un grande e controverso dibattito sul ruolo delle donne nel mondo dei videogiochi. È come se Internet fosse stato programmato già dall’inizio per permettere la nascita di campagne di opinione bigotte e moleste.
Perché l’odio ha vita facile, online? In una discussione pubblicata online sulla rivista scientifica Social Media + Society, Milner e alcuni ricercatori che si occupano di cultura digitale hanno provato a rispondere all’annosa domanda risalendo alle radici storiche del bullismo e delle molestie online. Un primo colpevole: il tipo di comunità prospettato e promosso da gente come Barlow – che ambisce a cancellare potere politico, contesto sociale e caratteristiche personali e fisiche degli utenti digitali – può essere la causa del fatto che per essere ascoltato chi vive online deve parlare in maniera più aspra e forte. Tim Jordan, che si occupa di cultura digitale alla University of Sussex, ha spiegato che siccome le «caratteristiche identitarie» su Internet sono «per forza di cose instabili, al contrario di cose come il proprio corpo e il timbro vocale», devono quindi «essere stabilizzate tramite la loro continua affermazione».
Su Internet, negli Stati Uniti, donne e neri sono costantemente forzati a esprimere aspetti della loro identità che sono spesso ovvi nella comunicazione faccia a faccia, oppure già sedimentati da una relazione personale: in una conversazione di persona è probabile che tu sappia già quale dei tuoi amici si identifica nella comunità nera e quale abbia abortito di recente. Nel frattempo, a loro volta, le persone che provano odio nei confronti di questi gruppi vanno in cerca di riconoscimento tramite l’insulto, sempre alla ricerca dell’affermazione di una propria identità.
Secondo Milner, le identità “offline” delle persone che dominavano l’Internet della prima ora dicono di più sulla struttura che ancora oggi ha Internet di quanto possano farlo i meccanismi con cui le identità offline vengano trasferite nella vita online. In pratica: se Internet è un postaccio, lo dobbiamo a chi lo ha frequentato e costruito dagli inizi. Milner ha scritto che «storicamente sia il mondo dei videogiochi sia quello di Internet erano pieni di un particolare tipo di “nerd” che veniva dall’ambiente maschile e scientifico-razionale delle prime persone che si occupavano di tecnologia» (io aggiungerei anche “prevalentemente bianco”).
Veniamo al dunque. Questi primi storici utenti avevano le loro ragioni per voler cancellare il contesto sociale dal nuovo spazio digitale. In un articolo pubblicato questo mese il professor Adrienne Massanari della Università of Illinois ha fatto notare che gli uomini che definiamo “nerd” hanno spesso grosse difficoltà con il loro background culturale e le loro insicurezze personali, che li rendono “deboli”, sessualmente poco desiderabili e socialmente inetti; e che alcuni di loro reagiscono a queste difficoltà «valorizzando l’intelletto sopra le capacità sociali ed emotive». Milner aggiunge che adesso «le donne, i neri e persone dalle caratteristiche più varie reclamano il loro diritto a partecipare alla discussione nelle modalità in cui vogliono farlo, quindi assistiamo a una specie di rivolta». Per alcuni parlare online di femminismo o di razzismo è come fare una battaglia per il “cuore” di Internet stesso: dato che sono questioni che non interessavano i primi utenti di Internet, però, i loro discendenti non le sentono come proprie e si sentono in diritto di poterle criticare liberamente, senza freni.
Rispetto a vent’anni fa Barlow ha cambiato idea su alcune cose: ma gli schemi mentali contenuti nei suoi scritti restano impressi ancora oggi nei meccanismi di funzionamento di Internet, in un’epoca in cui le società che possiedono i social network hanno deciso di fare soldi a partire da quella che Barlow chiamava “la conversazione globale”.
Alison Harvey, che insegna alla University of Leicester, sostiene che «le campagne di molestie online per alcuni sono semplicemente fenomeni per creare contenuti. L’odio, come il sesso, crea un giro di soldi». Il traffico di Reddit, per esempio, aumentò esponenzialmente quando l’anno scorso vennero diffuse le foto private di alcune attrici rubate dai loro account privati. Gli amministratori del sito furono riluttanti a porre dei paletti perché temevano che si sarebbero inimicati una parte della propria comunità. «Meno utenti vuol dire meno soldi», ha scritto Massanari. Sebbene Reddit all’inizio di quest’anno abbia vietato il “revenge porn” e certi subreddit (forum tematici) apertamente razzisti, gli utenti sono ancora piuttosto liberi di postare quello che vogliono.
In una comunità online costruita sull’idea che ogni contributo sia ugualmente valido, i molestatori assumono la stessa importanza delle loro vittime. Ma dal momento che il molestatore riduce la sua vittima al silenzio, diventa più importante agli occhi delle società che gestiscono i social network. Come ha detto recentemente lo scrittore fantasy Ferrett Steinmetz, «a un troll che insulta le donne tutto il giorno, viene fatta vedere pubblicità per tutto il giorno. E quindi diventa un utente molto più importante: cacciarlo non conviene». Nel 2004 Barlow ha comunque rimodulato il suo pensiero, spiegando che bisogna occuparsi delle grosse società che gestiscono i social network: secondo Barlow «molti libertari sono preoccupati del governo ma non altrettanto delle grandi aziende. Credo che dovremo trattare le grandi aziende esattamente come i governi».
© Slate 2015